Luca Serra alle prese con l’indaco. A Genova

Linda Kaiser, Artribune Magazine, Marzo 28, 2018

Galleria ABC Arte, Genova ‒ fino al 30 marzo 2018. I colori dei cieli di Spagna sono i protagonisti della pittura, quasi scultorea, di Luca Serra.

 

 

 

Nelle opere di Luca Serra (Bologna, 1962) si respira la terra di Spagna, quella in cui ha scelto di comporre i suoi lavori. Stare vicino ad Almería, a 40 chilometri da Tabernas, al limite dell’omonimo deserto in cui giravano gli Spaghetti Western, è particolarmente significativo per lui, che era abituato al capoluogo romagnolo “molto colloso e melassoso”.

Serra ricerca quella libertà di spirito che ti può dare il rapporto diretto con la natura e con le necessità più pratiche della vita. Il suo lavoro si basa molto su ciò che vede: una distesa di colline abbastanza brulle, cieli blu, un piacevole caldo, che evita al cervello di congelarsi.
Così, al contrario delle sue prime opere, sorta di lavagne grigie in gesso e grafite, ora il colore prevale. E Añil, non a caso, è la parola-chiave con la quale l’artista suggella la sua personale a Genova. Añil in spagnolo significa indaco, il blu che ha sempre affascinato Serra. Per lui non è tanto un titolo, ma attribuisce a questo termine le variazioni all’interno di un ciclo di opere.

 

COLORI MEDITERRANEI

Il suo lavoro è fondato sul trovare la differenza tra il progetto e l’oggetto finito. La preparazione è razionale e calcolata, perché Serra cosparge di catrame i pannelli sagomabili, poi si dedica alla composizione geometrica, interviene con la pittura e quindi con pigmenti polverosi. A questo punto, in una seconda fase che ne caratterizza la tecnica, incolla sul supporto una tela che stacca, strappandola e “rompendo i colori”, per dare un’autonomia al processo, renderlo reale. L’opera, così, è un altro-da-sé, un’epifania, un’imprevista sorpresa.
Parliamo di pittura, in quanto il risultato finale è un’immagine bidimensionale, ma la pratica di Serra si potrebbe anche accostare a quella di uno scultore che non ha forme, perché lavora sullo spessore soltanto nel backstage.
Guardando le sue opere, gli Añil o i Piár – storpiatura linguistica da parte della bambina di un suo amico, che deriva da limpiar, cioè pulire – e altri calchi in resina acrilica di pigmenti e polveri su tela, si può pensare a pezzi di muro, lacerti di costruzioni in fieri. Incoraggia questa lettura anche la cornicetta di apparenti mattoncini che l’artista usa in maniera funzionale come base, per equilibrare la composizione, dare un peso al lavoro, incrementarne l’estetica.
E in questi possibili orizzonti mediterranei, insieme all’ocra dei terreni assolati e al rosso del caucciù, l’añil diventa un gesto in se stesso: non è né cielo, né acqua, né terra, ma puro movimento.

 

‒ Linda Kaiser