LIBRI

La partecipazione di Griffa al dibattito delle arti si esplica negli anni anche attraverso la pubblicazione di numerosi testi che affiancano e dialogano con la sua pittura, spesso arricchendosi di disegni, incisioni e acquerelli. Ne ricordiamo i principali:

 

Non c'è rosa senza spine, Torino, Martano Editore, 1975. [italiano/inglese]

Cani sciolti antichisti / Loose antiquist dogs, Torino - Genova, Martano Editore e Samanedizioni, 1980. [italiano/inglese]

Drugstore parnassus, Torino-Aachen, Martano Editore - Ottenhausen Verlag, 1981. [italiano/tedesco/inglese]

In nascita di Cibera, Chieri, Studio Noacco, 1989.

Di segno in segno (con Martina Corgnati), Fumagalli Editore, 1995.

60 schizzi da opere 1968/2000 e un testo, Torino, Franco Masoero, 2000. [italiano/inglese]

Nelle orme dei Cantos, Milano, Libri Scheiwiller, 2001

Post scriptum, Torino, Hopefulmonster, 2005. [italiano/inglese] ISBN 978-88-7757-192-2

I flaneur del Paleolitico (a cura di Giulio Caresio), con il patrocinio dell'Accademia di San Luca, San Marino, Maretti, 2013. ISBN 978-88-89477-69-4

Giorgio Griffa: il paradosso del più nel meno di Giulio Caresio, Martina Corgnati, Roberto Mastroianni, Milano, Gribaudo/Feltrinelli, 2014. ISBN 978-88-580-1292-5

 

BIBLIOGRAFIA:

Paolo Fossati, Catalogo L'azione concreta, Villa Olmo, Como, 1971.

Maurizio Fagiolo, Catalogo Giorgio Griffa, Galleria Godel, Roma, 1972.

Vittorio Fagone e Aldo Passoni, Catalogo Fare Pittura, Museo di Bassano del Grappa, 1973.

Daniela Palazzoli, Pittura Radicale, Domus, maggio 1973, p. 54.

Tommaso Trini, Come e perché dipingono, Data, estate 1973, pp. 50-59.

Paolo Fossati, Nuove pitture: Gastini e Griffa, Data, inverno 1973, pp. 66-75.

Germano Celant, La pittura fredda Europea, Domus, ottobre 1973, p. 53.

Tommaso Trini, Giorgio Griffa, biographie d'un peintre, Art Press n.15, dic 1974-gen. 1975, pp. 18-20.

Vittorio Fagone, Catalogo Sempre cose nuove pensando, International Cultureel Centrum, Antwerpen, 1975, pp. 23-25.

Hermann Kern, Catalogo Giorgio Griffa , Kunstraum, München, 1975.

Klaus Honnef e Catherine Millet, Analystiche Malerei, Masnata, 1975.

Filiberto Menna, La linea analitica dell'arte moderna, Einaudi, 1975, p. 83. ISBN 978-88-06-16051-7

Giulio Carlo Argan e Italo Mussa, Catalogo I colori della Pittura, Istituto Italiano-Latino Americano, Roma, 1976, p. 138, 213.

Gillo Dorfles, Ultime Tendenze nell'arte d'oggi, Milano, Feltrinelli 1976, p. 77. ISBN 978-88-07-81566-9

Achille Bonito Oliva, Europa-America, Parma, Franco Maria Ricci, 1977, p. 156.

Germano Celant, Identité Italienne, Centre Pompidou, Paris, 1981, p. 249, 472, 480, 579, 626.

Jürgen Schilling, Catalogo 11 Italienische Kunstler in München, Kunstlerwerkstäten, München, 1982.

Flaminio Gualdoni, Catalogo Registrazioni di frequenze, Galleria d'Arte Moderna, Bologna , 1982.

Francesco Poli, Pittura di superficie ma profonda un secolo, Nuova Società, 13 novembre 1982, p. 55.

Giorgio Griffa e Claudio Cerritelli, Dialogo sospeso sulla pittura, Galleria Nuova 2000, Bologna, 1984.

Filiberto Menna, Catalogo L'Italie aujourd'hui, Centre National d'Art Contemporain, Nice, 1985.

Flaminio Gualdoni, Catalogo On language and ecstasy, Alvar Aalto Museo, Jyväskylä, 1985, pp. 63 e seg.

Francesco Poli, Catalogo Giorgio Griffa, Galleria Martano, Torino, 1985.

Silvana Sinisi, Giorgio Griffa, lieve replicante, Galleria Banchi Nuovi, Roma, 1987.

Piergiovanni Castagnoli e Flaminio Gualdoni, Catalogo Disegno italiano del dopoguerra, Cooptip, 1987.

Claudio Cerritelli, Maestri d'avventura, Ravenna, Essegi, 1987, pp. 36 e seg.

Silvana Sinisi, Catalogo Il passo dell'acrobata, Mazzotta, 1987.

Filiberto Menna, Catalogo Mediterranea, electa, 1988, pp. 96 e seg.

Giovanni Maria Accame, Catalogo Ragione e trasgressione, Electa, 1988, pp. 48 e seg.

Paolo Fossati e Mario Bertoni, Griffa, Ravenna, Essegi, 1990. ISBN 978-88-7189-145-3

Paolo Fossati, Catalogo Architettura e urbanistica a Torino 1945-1990, Torino, Allemandi, 1991. ISBN 978-88-422-0312-4

Giorgio Griffa, II principio di indeterminazione, Milano, Maestri Incisori Editore, 1994.

Giovanni Maria Accame, Catalogo Giorgio Griffa l'origine profonda, Bergamo, Galleria Fumagalli, 1995.

Martina Corgnati e Giorgio Griffa, Di segno in segno, Bergamo, Galleria Fumagalli, 1995.

Giorgio Verzotti e Tommaso Trini, Pittura italiana da collezioni italiane, Milano, Charta, 1997. ISBN 978-88-8158-125-2

Giorgio Griffa, Come un dialogo, Milano, Lorenzelli, 1997.

Giorgio Griffa, Approdo a Gilania, Torino, Galleria Salzano, 1998.

Dede Auregli e Danilo Eccher, Catalogo Arte italiana. Ultimi quarant'anni. Pittura aniconica, Milano, Skira, 1998, pp. 178 e seg. ISBN 978-88-8118-441-5

Riccardo Passoni, Catalogo Turiner Künstler in Stuttgart/Artisti torinesi a Stoccarda, Torino, GAM, 1998.

Annemarie Sauzeau, Bruno Corà, Giorgio Bonomi, Catalogo Le soglie della pittura, Perugia, Rocca Paolina Perugia, 1999, pp. 48-49, 88 e segg.

Giorgio Griffa, Intelligenza della materia, Torino, Galleria Salzano, 2000.

Maria Cristina Mundici, Maria Mimita Lamberti, Mario Rasetti, Giorgio Griffa. Uno e due, Torino, GAM, 2002. ISBN 978-88-88103-15-0

Marco Meneguzzo, Catalogo Pittura Analitica, Galliate, Museo Angelo Bozzola, 2003 pp. 38 e seg.

A.A.VV, Castello di Rivoli - La Collezione, Torino, Allemandi Torino, 2003 p. 190.

Giovanni Maria Accame, Catalogo Le figure mancanti, Torino, Palazzo Bricherasio, 2003, pp. 54 e seg., pp. 129 e seg.

Francesco Poli, Arte Contemporanea, Milano, Electa, 2003, pp. 77, 82, 90. ISBN 978-88-370-3706-2

Claudio Cerritelli, Catalogo L'Incanto della Pittura, Mantova, Casa del Mantegna, 2004, p. 238.

Klaus Wolbert, Luca Massimo Barbero, Marco Meneguzzo, Giorgio Griffa, Milano, Silvana, 2005. ISBN 978-88-8215-881-1

Germano Celant, Vibrazioni cromatiche, in L'Espresso 16.6.2005, p. 135.

AA.VV., Castello di Rivoli - 20 anni di arte contemporanea, Milano, Skira, 2005, p. 284.

Francesco Poli, Minimalismo Arte Povera Arte Concettuale, Roma, Laterza, 6ª ediz., 2005, p. 104 e altre. ISBN 978-88-420-4568-7

Alberto Fiz, La linea analitica della pittura, Milano, Silvana, 2007, p. 26 segg. ISBN 978-88-366-0841-6

AA.VV., Catalogo TIME & PLACE Torino-Milano 1958-1968, Moderna Museet, Stockholm, 2008, p. 138. ISBN 978-3-86521-641-0

Francesco Poli e Francesco Bernardelli, Arte contemporanea dall'informale alle ricerche attuali, Milano, Mondadori, 2008, pp. 136, 155. ISBN 978-88-370-5229-4

Pier Giovanni Castagnoli e Elena Volpato, Dieci anni di acquisizioni per la GAM di Torino 1998-2008, Torino, Allemandi, 2008, tavole 132/5. ISBN 978-88-422-1635-3

Alberto Fitz, Giorgio Griffa. Segnando Pittura, Milano, Silvana, 2008. ISBN 978-88-366-1241-3

Giorgina Bertolino e Francesca Pola, Catalogo Torino sperimentale 1959-1969, Torino, Giulio Bolaffi, 2010, p. 129. ISBN 978-88-88406-56-5

Giovanni Maria Accame, La forma plurale, Milano, Charta, 2010, pp. 44 seg.

Luca Massimo Barbero, Torino Sperimentale 1959-1969, Allemandi & C., 2010, p. 415 segg. ISBN 978-88-422-1848-7

Giorgio Griffa e Giulio Giorello, Catalogo Giorgio Griffa - La divina proporzione, Milano, Studio Guastalla, 2010.

Martina Corgnati e Giorgio Griffa, Catalogo Giorgio Griffa - Alter Ego 1979-2008, Milano, Skira, 2011. ISBN 978-88-572-1068-1

Luca Massimo Barbero, Francesca Pola, Giorgio Griffa, Catalogo Giorgio Griffa - Canone aureo, MACRO Roma, Marsilio, 2011. ISBN 978-88-317-1030-5

Wita Noack, Catalogo Giorgio Griffa - Golden Ratio, Berlino, Mies van der Rohe Haus, 2012. ISBN 978-3-935053-73-0

Francesco Tedeschi, Il Colore come forma plastica, Ginevra-Milano, Skira, 2012, p. 16, 35, 46. ISBN 978-88-572-1746-8

Charles Wylie, Catalogo Giorgio Griffa - Fragments 1968-2012, Casey Kaplan, 2013. ISBN 978-0-615-78039-9

Seung-Taek Lee e Giorgio Griffa, Giorgio Griffa's Segni orizzontali (1975), London, Tate Etc. Issue 30, Spring 2014, p. 107.

Ivan Quaroni , "Giorgio Griffa : esonerare il mondo / to relieve the world", ABC-ARTE S.r.l, 2015, Bilingual edition 96 pages, Publisher: ABC-ARTE S.r.l, ISBN: 978-88-95618-08-1, Dimensions: 26,5x19,2

 

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Un mondo astratto non basta

Giorgio Griffa in dialogo con Leonardo Caffo

 

 

Caffo. Il mondo astratto non basta, ma forse mai come oggi ci rendiamo conto che l’astratto è una forma di concreto palese, tangibile, quasi tattile. Il mondo non è mai stato immateriale tanto quanto oggi, tra le nuvole del digitale, strutture primarie come forme e colori sembrano tutto ciò che accade. Il colore, in effetti, rappresentato come forma pura dell’intelletto ci appare ancora come qualcosa di misterioso. Wittgenstein definisce “matematica del colore” la scienza che cerca di capire cosa siano le idee pure che compongono la grammatica del vedere. Pensavo che in fondo, molto del tuo lavoro (dai Segni primari all’analisi della Seziona aurea), potrebbe essere descritto benissimo da questa idea di Wittgenstein. Se dico “colore” non possiamo non pensare a un’idea astratta che prende forma solo nel concreto.

Iniziamo dunque da qui, se dico “colore” cosa ti viene in mente? Ti ritrovi in questa definizione di Wittgenstein? C’è, nella corda tesa tra l’astratto e il concreto di cui il colore appare qualcosa di privilegiato, proprio quella «traccia di vita» di cui parlava Yves Klein - «Lunga vita all’immateriale!».

 

Griffa.  Si, lunga vita all’immateriale.

La scienza con la meccanica quantistica e la filosofia con Wittgenstein e Nietzsche (qui tu filosofo puoi dirmi se sbaglio) hanno riaperto una immensa prateria di ignoto che l’Occidente pareva avesse archiviato relegandolo ai popoli primitivi, che invece primitivi non erano affatto sul piano del pensiero anziché della tecnica.

Le arti, che da sempre attingono all’immateriale, ritrovano quel dialogo che si era interrotto quando l’Occidente iniziò a pagare il prezzo di un immenso sviluppo tecnologico e scientifico riducendo la persona a mero soggetto economico.

Non è un caso che Schopenhauer abbia scritto “Il mio Oriente” all’inizio dell’800, mentre si generalizzava lo sfruttamento colonialistico con l’alibi della cultura superiore. Anche in grazie del Romanticismo, che io non amo in modo particolare, noi abbiamo ritrovato quella unità perduta di materiale e immateriale, di noto ed ignoto, di essere e di non essere, di Yin e Yang.

La immensa energia dell’universo, che opera con una intelligenza inimmaginabile attraverso le impercettibili particelle che appaiono solo quando operano, contiene non solo i sassi e gli alberi e gli esseri viventi, contiene tutti i pensieri di tutti, questo è il titolo della mostra che ho in corso al Museo di Spoleto.

Il segno del pennello sulla tela è il passaggio dalla immensa energia indifferenziata del mondo a quella briciola di energia materiale che si concreta nel segno.

 

Caffo. Questa energia, che in filosofia mi fa pensare alla teoria di Averroe dell’intelletto condiviso, sembra apparire nel tuo lavoro un po’ ovunque. Il divenire continuo dei segni intesi come dei buchi neri, i campi che si portano dietro un’energia immensa come nel Dionisio, sono sicuramente qualcosa che si pone in una relazione molto privilegiata e critica col tempo presente. Parlavi di questo “prezzo immenso” del progresso e della società tecno-industriale, e anche durante il nostro primo incontro il tuo scetticismo nei confronti di internet sembrava farla da protagonista. Eppure internet, in fondo, è proprio questa energia immateriale e indifferenziata che poi si può concretizzare in un segno ed è nata proprio come sogno di un intelletto condiviso. Le cose poi sono andate male? Forse. Il punto, e qui sta la mia seconda domanda per te, è che non tutti i segni hanno lo stesso valore quando tentanodi cristallizzare l’energia da cui scaturiscono. C’è un’etica dietro questa estetica energetica di cui mi stia parlando?

 

Griffa. Direi che internet con la sua capacità di raccogliere miliardi di dati in un magazzino che non c’è, senza spazio né tempo, immateriale, mi aiuta a considerare reali Gilgames e Apollo per il solo fatto di essere pensati, assurdo negarli se non li ritroviamo nel mondo materiale.

Il nostro tempo ha appena aperto un portale immenso, forse paragonabile solo alle due grandi invenzioni del passato, i metalli e la scrittura. Qui convivono i contrari, vi sono i margini per ritrovare ovviamente diversa una ricchezza che era dell’uomo arcaico, che divenne consapevole al tempo di Confucio, Lao Tzu, Budda, Talete ed Eraclito, la nascita della filosofia, e nei secoli successivi.

L’uomo economico dimezzato del nostro tempo recente deve ritrovare quella unità perduta di spirito e materia, deve raccogliere le vie che la ragione indica per andare al di là di essa, deve abbandonare lo spirito di dominazione sul mondo e sugli altri, diventato pericoloso perché gli strumenti sono troppo potenti.

Sì. Mi pare vi sia una forte esigenza etica sulla quale non mi ero sino ad oggi soffermato. Le arti continuano ad entrare nell’ignoto a partire dal tempo di Orfeo. E l’ignoto è quella parte della realtà a cui non possiamo dare identità. A sua volta l’etica è immateriale ma tutt’altro che ignota, è anch’essa parte della realtà con cui tutti debbono fare i conti. Anche le arti.

 

Caffo. A questo punto credo sarebbe un errore, visto che è un momento inedito per te, non soffermarsi un secondo su questa questione dell’etica. Il tuo lavoro è tutt’altro che cartesiano come potrebbe apparire: non c’è da un lato la res mentale e dall’altro quella corporale. I colori, le forme, nella loro apparente astrattezza sembrano generare un’idea di mondo molto diversa da quello del conflitto, delle epidemie, delle crisi ecologiche che oggi siamo costretti a vivere. Se un colore e una forma possono stare appesi al loro divenire, senza prendere nessuna forma stabile, significa che c’è un rispetto per la fragilità dell’indecisione che è appunto una forma morale. Questo vedono i miei occhi quando osservo molto del tuo lavoro, perché se c’è un divenire che non approda mai a nessuna forma stabile allora c’è anche un rispetto per questo divenire. Nonostante tutto è proprio vero che l’estetica è etica, come sosteneva Wittgenstein nella sua conferenza sull’etica: entrambe, non solo sono immateriali, ma sono soprattutto incommensurabili. Che idea di mondo concreto morale cela entro sé il mondo astratto dell’estetica?

 

Griffa. Non so se sono capace di seguirti e mi affido alla pazienza tua e di chi avrà la pazienza di leggere.

A mio parere si tratta sempre di percorsi della ragione, di una ragione non necessariamente cartesiana e comunque per noi occidentali pur sempre figlia di Cartesio. Anche la poesia è figlia della ragione, una ragione gentile che si apre a tutto ciò che essa non può regolare. Mi viene di citare il Calvino delle Lezioni Americane, ma la citazione rimane indeterminata.

Sino a ieri c’erano il mondo animato e il mondo inanimato, la pittura prendeva dei materiali e li trasferiva nel mondo animato, dava ad essi la capacità di trasportare conoscenza, emozione, estasi, persino lo shock spazio-temporale della sindrome di Stendhal.  Le montagne erano forme stabili per miliardi di anni, un fiore per poche ore.

E’ ancora così, le mucche continuano a partorire e le pietre continuano a non partorire, ma la nostra ragione ha scoperto attraverso la scienza che esiste un universo nascosto in cui tutto è vita, tutto è divenire, le particelle, muovono, si scontrano, si uniscono, partoriscono, nascono e muoiono dappertutto, anche nei monti e nei fiori, il tempo e lo spazio sono le coordinate della nostra dimensione ma non sono più le rotaie fisse dell’universo di Newton.

Che c’entra tutto ciò con l’etica? La mia risposta può riguardare soltanto l’etica specifica del mio lavoro, non un’etica generale che ha i suoi spazi ovunque, dalla religione alla politica alla vita quotidiana.

Si tratta della scelta, fra i suoi infiniti aspetti, della pittura come percorso di conoscenza, scelta che forse, non spetta a me dirlo, può essere assieme estetica ed etica.

 

Caffo A questo punto, permettimi un passo indietro meno concettuale, quali forme di conoscenza materiale compongono l’arcipelago immateriale? Quali sono stati gli incontri, le persone, i maestri, i luoghi che sono stati centrali nella tua esistenza? Citavi Calvino, penso alla sua leggerezza e al modo con cui racconta di Perseo e la Medusa: alle ali “da montare” sul pesante per trasformarlo in leggero. A come nasca Pegaso, alla bellezza del paradosso di una mucca che partorisce una pietra. Quali sono i volti che hanno “alleggerito” il tuo cammino? 

 

Griffa. Mi è difficile e insolito fare un salto indietro nella memoria. In un testo recente, dedicato ai miei 11 cicli di pittura, ho ricordato quando attorno ai 15 anni andavo in piazza a sentire gli Agit-Prop del partito comunista e tornando a casa passavo alla libreria americana dell’USIS a vedere la pittura di New York. Ed ho ricordato quando negli stessi anni ebbi un’autentica illuminazione davanti ad un quadro di Mondrian. Ti rispondo indicando le letture fondamentali, l’Ulisse e i Cantos, ma anche Gargantua e Pantagruel, e accanto a Joyce e Pound la Terra Desolata di Eliot e il Bosco di Latte di Dylan Thomas. Su quest’ultimo ho fatto un’opera recente, su Eliot ho un progetto che spero di realizzare nei prossimi mesi.

Come vedi molta poesia, ma anche i libri di divulgazione del pensiero orientale che iniziarono a uscire appunto negli anni ’50, la scoperta emozionante della bellezza dello Zen, dei Veda, del Tao. E gli scritti e pensieri sull’arte di Matisse che mi fecero adulto. In seguito libri di divulgazione della scienza, Capra, Feymann, Rovelli, e molte, molte letture.

Sono un nomade sedentario che viaggia attraverso le pagine scritte.

Poi le persone, a partire da Aldo Mondino che mi introdusse al contemporaneo quando eravamo ancora ragazzi, Alighiero e Anne Marie Boetti, Filiberto Menna, Paolo Fossati, Maurizio Fagiolo, Germano Celant, il mio maestro Filippo Scroppo, Claudio Olivieri, Carlo Battaglia, Claudio Verna, Marco Gastini come un fratello e Sperone con la compagnia dell’Arte Povera, in sintonia con Anselmo, Penone e Zorio. Essendo un solitario non sono mai andato a cercare poeti e letterati, preferivo leggerli.

 

Caffo. Pensavo, mentre parlavi, a questa idea dell’essere solitari alla tua serie sulle tre linee con arabesco. Mi pare che ovviamente la cosa interessante sia l’assenza di gerarchia e la tendenza all’infinito ma c’è qualcosa altro: queste linee parallele, per definizione, non si incontreranno mai. Nella risposta che mi hai appena dato c’è come sottotraccia l’idea che contino più le idee in parallelo tra loro che gli incroci, spesso forzati, tra gli individui che queste idee hanno prodotto. Abbiamo deciso, tutti insieme, di chiamare questa tua mostra “Un mondo astratto non basta” forse anche convinti che il compito essenziale non sia contrapporre l’astratto a un presunto concreto ma fare un po’ come hai fatto nel tuo lavoro distruggendo la differenza tra la linea, mezzo tradizionale di disegno della forma, e il colore come strumento di riempimento di questa forma. Una distinzione fittizia, appesa alla larghezza del pennello, esattamente come è fittizio il confine che separa astratto e concreto. È celebre un tuo motto, “io non rappresento nulla, io dipingo”. Ne sei ancora così sicuro? A me pare che tu abbia rappresentato in modo così esplicito e tangibile un mondo fatto di concretissime energie.

 

Griffa. Da tempo ritengo che la polemica figurativo-astratto abbia fatto danno sia all’arte italiana sia alla vita di molti artisti. Ho dipinto figure sino a quando mi è parso che fossero divenute superflue e a quel punto semplicemente le ho abbandonate.

Io non rappresento nulla può significare non datemi troppa importanza, e può anche significare che non utilizzo immagini. C’è una contraddizione inevitabile perché si vorrebbe non rappresentare la parte non rappresentabile del mondo, appunto la parte nascosta, ma la pittura è rappresentazione per suo statuto e in definitiva i segni che ne risultano sono anch’essi immagini, figure.

Anche qui la contraddizione non è superabile con un artificio logico bensì con un atto di vita, appunto il dipingere.

Quando Matisse ha affrontato il problema del conflitto linea-colore ed ha inventato le carte ritagliate a mio parere non ha risolto il problema perché il taglio della forbice in qualche modo diventa linea, ma ha costruito un fantastico, altissimo insieme di opere, degne di tutta la vita di un grande artista. E aveva 80 anni.

Da qualche parte ho scritto che la differenza fra linea e colore a mio parere dipende dalla larghezza del pennello e dal modo di posarlo, direi che la ragione, l’idea astratta non va disgiunta dall’azione. In qualche modo è qualcosa di simile a ciò che accade quando l’energia indifferenziata del mondo si concreta nelle particelle e questi costruiscono una mucca e una pietra, oppure una linea e un colore.

E in quest’ultimo caso la rappresentazione coincide con l’evento.

Ecco, un mondo astratto non basta, anche la astrazione è un evento reale, grazie alle particelle anche il mondo immateriale è un mondo concreto, tutti i pensieri di tutti sono parte della realtà, i segni del pennello sono reali come le pietre e le mucche.

Realtà dunque di spirito e materia, uniti nelle arti in un legame indissolubile, altrimenti non si capirebbe come un suono, una parola, un segno possano illuminarci di immenso.

Nulla di nuovo, anzi qualcosa di molto antico.

Con un piccolo passo ulteriore. Essendo probabile che l’energia primaria del mondo non abbia tempo e spazio, là non vi è un prima e un dopo e neppure un là, l’evento si arricchisce perché passa da uno stato indeterminato alla nostra configurazione temporo-spaziale.

Ed io mi chiedo se quella forte continuità che sento nella storia dell’arte, nonostante le fortissime differenze fra un tempo e l’altro e fra un luogo e l’altro, tragga la sua origine dal profumo, che non più di un profumo può essere, di quello stato originario di energia indefinita in cui non vi sono né prima e dopo né qui e là, né tempo né spazio.

 

Caffo. “Sopra tutto ciò che non mi è dato sapere, devo tacere”. Come è noto la settima e ultima proposizione del Tractatus di Wittgenstein spinge la filosofia a un misticismo che, secondo molti e che ritrovo in questa tua ultima e meravigliosa risposta, la consegna all’arte. C’è, appunto, un irrapresentabile del mondo che pure, in qualche strano modo, dobbiamo provare a rappresentare abitando un paradosso che poi è quello delle “cose ultime”. Le grandi domande di senso, certo, ma anche come suggerivi tu questa energia indefinita e fuori dalla mediocre linea del tempo che ci siamo dati. Il tuo lavoro viaggia, come le linee e i colori che proponi, a cavallo tra molti mondi: c’è la fisica più recente, c’è la filosofia del divenire, c’è la letteratura. Non vorrei, se posso, banalizzare questa intervista o dialogo come un semplice corollario di altro - nelle tue parole c’è il desiderio di dire qualcosa di così urgente, eppure di così palese: non c’è nessun pensiero sensato che non si traduca in una forma di vita. Un artista, per me, non è solo le sue opere (e qui, ti prego, darmi un secondo per spiegarmi); è il suo operato, appunto la forma di vita e la capacità di seguire una regola e una disciplina quasi privata rispetto al mondo in cui è stato gettato, e con cui non può, quasi per natura, che essere in conflitto. Che forma di vita, utilizzo appunto questa formula così cara non a caso a una tradizione che va da Agostino a Wittgenstein, c’è dietro una forma d’arte come la tua?

 

Griffa. Il tuo richiamo ad Agostino e Wittgenstein mi sorprende per la sua pertinenza con il mio metodo di lavoro. Paolo Fossati una volta mi disse che ogni giorno io andavo “à la Trappe”. La icona del genio sregolato non fa al caso mio. Ho una vita felicemente regolata dalle necessità del lavoro, casa e studio, studio e casa, a letto presto. Ho dovuto lavorare tutta la vita, ho fatto anche un altro mestiere, ma non ho mai accettato l’idea del lavoro come punizione, anzi ritengo che il lavoro sia la più alta e straordinaria invenzione dell’umanità. Dalla amigdala al computer, col lavoro l’uomo ha costruito e costruisce il suo mondo, realizza se stesso.

Si, c’è un certo conflitto con il lavoro come mero strumento di guadagno, il denaro come risarcimento della pena lavorativa. Il guadagno può ben esserci ma non è l’essenza come mi pare sia per l’uomo economico dimezzato.

Una disciplina, anzi una autodisciplina del proprio lavoro non è una limitazione della libertà ma la sua realizzazione. L’idea astratta di libertà allo stato puro, di sé sola, può divenire un alibi per la schiavitù peggiore, la violenza.

Torniamo alla energia indifferenziata dell’universo che diviene particella, alla particella che lavora e diviene mucca o pietra, io vedo un disegno generale per cui non si può separare l’idea dall’azione.

E il lavoro mi pare si innesti perfettamente in questa lettura.

 

Caffo. Va bene, torniamo a questa energia. Però questa volta voglio essere un po’ più “diretto”. Parli di, “disegno generale”: ti riferisci a Dio? Che rapporto hai con la causa finale? Se ti immagini Dio, com’è?

 

Griffa. A mio parere le arti non danno risposte, si limitano ad aprire la porta e qui tu devi arrangiarti.

Invece le religioni rispondono alla necessità umana di dare identità a tutto, anche all’ignoto.

Se ricordo bene, in India il Braman, così mi pare si chiami il principio fondamentale, non può avere nessuna definizione, identità indistinta, e dunque a mio parere là sono nate centinaia di divinità perché ciascuno di noi possa trovare nell’ignoto ciò di cui ha bisogno, entrare in sintonia con gli aspetti concreti più vicini al suo modo si essere, cioè le singole divinità, possa trarre forza d’animo, consolazione, fiducia, trarre energia vitale da quella parte del mondo che non conosciamo.

Credo si debba un grande rispetto a tutte le religioni per questa loro funzione e per le altre connesse. Non so se questa mia idea di un disegno generale derivi dalla educazione religiosa che ho avuto oppure dalle scoperte più recenti della scienza che attestano la presenza di una intelligenza inarrivabile, generalizzata dal micro al macrocosmo, ed in buona parte misteriosa.

Allo stato attuale possiamo ipotizzare la danza delle particelle microscopiche, un miliardesimo di un miliardesimo di un miliardesimo di millimetro o giù di lì.

Dalla danza nascono stelle infuocate e pianeti freddi, intere galassie, buchi neri, materia oscura, esplosioni nucleari e ghiacci eterni, ed anche mare e cielo, monti e valli, alberi e frutti, persone e animali, organismi meravigliosamente complessi, ed anche ponti e ferrovie, navi e aerei, città e paesi, ed anche pensieri e memorie ed il profondo inconscio senza fondo in ciascuno di noi, ed anche Mozart e Dante, Eraclito e Newton, la Divina Commedia e le Nozze di Figaro, ed anche Partenone e piramidi, e puoi continuare tu quando avrai una notte senza sonno.

Io non sento la necessità di dare nome e identità a questa inarrivabile intelligenza, la pittura non ne ha bisogno perché appunto le arti si limitano ad aprire la porta.

 

Caffo. Mi pare forse eccessivo tirarlo ancora in ballo, ma pensavo alla teoria dei giochi linguistici di Wittgenstein formulata nelle sue Ricerche Filosofiche (1953). Noi pensiamo di dare nomi alle cose, e che questo sia il linguaggio, ma in realtà la nostra competenza linguistica è molto più legata all’uso e dunque esprime, ancora una volta, una forma di vita. È complesso, ma forse come suggerivi adesso necessario, provare a esistere non dando nessun nome a molte cose essenziali delle nostre forme-mondo - “anche se un leone potesse parlare”, ci dice appunto Wittgenstein, “noi non potremmo capirlo”. Un leone, in questo senso, non è diverso da un Dio. Anche se un Dio potesse davvero prendersi la briga di dirci qualcosa, temo segua dall’idea che abbiamo di lui sostenere che non potremmo capirlo: la mente non sottile è limitata, costretta alla gabbia della ragione o di quella che  intervistando Franco Battiato sul senso della sua musica, ho ricevuto una risposta davvero simile a quella che mi hai appena dato; pensavo che, forse, tutti coloro che cercano una strada espressiva senza sforzarsi di renderla tassonomica arrivano a conclusioni non dissimili. Ci resta di fare tesoro di una sorta di principio di indeterminazione non solo fisico ma anche, e forse soprattutto, metafisico. Su cosa stai lavorando adesso e quanto influisce questo “principio” sul tuo lavoro attuale?

 

Griffa. Sto lavorando contemporaneamente ai tre ultimi cicli, ora uno ora l’altro senza nessun ordine, al ciclo Canone Aureo con il numero di Euclide che non finirà mai ed ogni volta ricomincia su ogni tela, al ciclo Sciamano con le parole incomprensibili senza identità (per esempio OKUPOTUMOZ), al ciclo Dilemma con la convivenza degli opposti (per esempio DAVANTIDIETRO).

Una volta scrivevamo in latino adesso scrivo in italiano e in inglese. E curiosamente le parole scritte hanno preso a diventare esse stesse immagini con qualche lontana analogia con la forma della scrittura dell’Oriente. La sintonia con quanto ti rispose Battiato mi conferma l’opinione che tutte le arti hanno un fondo comune. 

Dici bene, il principio di indeterminazione non appartiene soltanto alla scienza.

 

Caffo. grazie Giorgio.

 

 

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Esonerare il mondo

Ivan Quaroni

 

Per comprendere il senso della ricerca pittorica di Giorgio Griffa, uno dei maggiori protagonisti dell'arte astratta italiana, è necessario capire che la sua opera non può essere intesa solo in conformità a valutazioni e rilievi di tipo formalistico. Se è vero, infatti, che a lui si deve addebitare la titolarità della creazione di un linguaggio originale, tanto semplice e basilare quanto efficace e incisivo, è altrettanto innegabile che tale grammatica, si è formata grazie alla progressiva precisazione di un pensiero e di una visione sulle ragioni stesse del "fare arte" e sulle qualità intrinseche della pratica pittorica.

Nei suoi scritti, così come nelle interviste rilasciate nel corso della sua lunga e per fortuna inesaurita carriera, Giorgio Griffa ha, infatti, più volte rivendicato per l'arte un ruolo sapienziale, ponendola sullo stesso piano della filosofia, della scienza, della poesia, della religione e, in generale, di tutte le forme di conoscenza umana. L'artista torinese ha, insomma, riservato alla pittura, ma potremmo dire per estensione a tutta l'arte, una funzione gnoseologica. Essa è, per lui, uno strumento di comprensione e di penetrazione dell'ineffabile e dell'indicibile, cioè di quel sovrappiù, che sfugge al pensiero logico e razionale, ma che ogni uomo porta in sé. Non si tratta banalmente solo dell'aspetto irrazionale ed emotivo, ma di quella parte irriducibile che sembra sfuggire ad ogni tentativo di misurazione e di valutazione. Si tratta di un quid, ossia di qualcosa di analogo a quanto accade nell'ambito della fisica quantistica, quando il tentativo di osservazione del comportamento delle particelle subatomiche ne fa crollare la funzione d'onda. Sappiamo che nel Principio d'indeterminazione di Heisemberg si cela la stessa quantità d'ignoto che per secoli fu solo appannaggio della religione e della poesia e, allo stesso tempo, che tale principio estende alle nuove scienze la consapevolezza dei propri limiti.

Griffa ha più volte parlato della metafora di Orfeo che riceve la lira da Apollo come di un momento cruciale della cultura occidentale in cui la sapienza delle origini, la Sophia dei greci, diventa Filo-sophia, cioè "discorso sulla conoscenza". Da quel momento in avanti, la comprensione dell'ignoto, del lato ineffabile filtra dalla religione alla poesia. L'uomo vi ha accesso non attraverso il pensiero scientifico, ma tramite le forme liriche e mitopoietiche, attraverso le storie degli Dei che conservano la conoscenza in forme simboliche.

Con la sua pittura Griffa accoglie la sfida che fu già della religione e della poesia di simbolizzare il mondo, cioè di alleggerirlo e sintetizzarlo in forme semplici, elementari, secondo un processo che il filosofo, sociologo e antropologo Arnold Gehlen, molto amato dall'artista, definisce di "esonero". Come nota Roberto Mastroianni, citando Maria Teresa Pansera1, "con questo termine Gelhen vuole indicare la capacità dell'uomo di creare schemi standard di comportamento, i quali una volta stabiliti scattano automaticamente in circostanze simili e, quindi, esonerano l'uomo da continue risposte agli stimoli ambientali e alle pulsioni interne, liberando così energie per ulteriori e più elaborate imprese, che coinvolgono anche funzioni rappresentative e simboliche"2.

Naturalmente il filosofo di Lipsia si riferisce a un procedimento che avviene sia a livello motorio, che in ambito linguistico e cognitivo. Il primo aspetto favorisce la formazione dei riflessi condizionati e delle abitudini, il secondo converte le esperienze sensibili in parole e simboli.

Data la natura del suo lavoro, fondato sulla ripetizione gestuale di segni e grafemi (e poi anche di numeri) in qualche modo sintetici e riepilogativi, Griffa non poteva che riscontrare nell'intuizione di Arnold Gehlen la perfetta descrizione del suo modo di pensare e di "praticare" la pittura. Innanzitutto il gesto di Griffa, il suo differenziato ripetersi, ossia quel suo modulare, molto "umanamente" - analogicamente vorremmo dire - le basi del discorso pittorico (il punto, la linea, la superficie, la materia), è qualcosa di molto simile al riflesso condizionato e all'abitudine pratica che ha le sue radici nella fisiologia stessa del dipingere.

Del valore del gesto nella pittura di Griffa si è parlato troppo poco, forse nel timore che tale aspetto potesse suggerire qualche semplicistica assimilazione ai modi dell'Action Painting o della Pittura Informale. Invece il gesto di Griffa è importante in ragione del significato che egli conferisce all'azione, al fare. Non solo la mano ha una propria intelligenza fisiologica, organica, radicata quindi nella biologia dell'individuo, e segnatamente del pittore, ma essa si rapporta, inoltre, con l'intelligenza della pittura stessa, con il suo cammino evolutivo, con la storia delle sue epifanie attraverso i millenni.

Griffa ha ribadito molte volte il fatto che per lui la pittura non sia un oggetto, ma un soggetto che, attraverso il segno e il colore "esonera" il mondo, cioè lo riepiloga, addensando e sintetizzando, quasi alchemicamente, la storia dell'umanità. Allo stesso tempo, la pittura è anche una norma di relazione col mondo, una procedura, come ricordavamo, "sapienziale", di conoscenza dei rapporti tra l'uomo, lo spazio e il tempo, in cui peraltro si riassume e si riattiva sempre, in un eterno presente, il senso stesso della parabola evolutiva umana. Una parabola, come ricordavo altrove3, che nei suoi scritti l'artista sintetizza in una pletora di tappe (per esempio, la sezione aurea nella concezione spaziale dell'Arte Greca e il canone prospettico nel Rinascimento) per affermare come, per la sua arte, il passato e la storia abbiano un valore primario.

Per Griffa, la memoria millenaria della pittura si salda alla memoria millenaria della mano (e del cervello) e la pratica pittorica, esattamente come la trasmissione orale dell'epos, diventa un processo riepilogativo favorito dal principio dell'esonero di Gehlen, che è appunto un meccanismo di condensazione e "alleggerimento" attraverso l'economia dei simboli e dei segni, di una quantità abnorme d'informazioni.

Nel caso di Griffa questi segni riepilogativi sono di una semplicità disarmante: linee rette, punti e poi numeri e arabeschi. Sono grafemi tracciati sulla tela che conservano tutte le irregolarità e imperfezioni tipiche dell'evento pittorico. Sono segni ripetuti ma differenziati dall'unicità di ogni singolo gesto.

Nonostante la sua opera sia per convenzione ascritta all'alveo della Pittura Analitica, nel suo approccio prevale il principio sintetico, quello dell'alleggerimento geheliano dell'esonero. La sintesi è, infatti, una prassi antitetica alla scomposizione analitica. Le linee, in punti, i numeri, perfino il colore, usati da Griffa non sono il prodotto di uno smembramento formale, ma il dato primario del linguaggio figurativo, i fonemi basilari della pittura, elementi che non solo appartengono a tutti, ma che chiunque può rifare. Proprio perché semplici, facili e riproducibili, i suoi segni, a differenza di quelli di altri artisti astratti in cui emerge, invece, una marca identificativa, "autoriale", sono universali. L'artista stesso ha, infatti, rilevato come il suo non sia un segno personale stilizzato - come potrebbe essere quello, per esempio di Capogrossi - ma un segno anonimo, la semplice traccia del pennello.4 E, tuttavia, questo segno, come qualunque altro segno pittorico, si differenzia dalla traccia di un evento naturale per il fatto di essere costruito dall'uomo, il quale ha almeno trentamila anni di storia.

La pittura di Giorgio Griffa, tanto quella del periodo preso in esame da questa mostra (1968-1978), quanto quella posteriore, arricchita di nuovi temi come l'inserimento di numeri e di arabeschi esornativi, è appunto una pittura astratta e concettuale equidistante tanto dalla figurazione, che si occupa della descrizione dei fenomeni esterni, quanto dall'astrazione tradizionale, che egli considera come una forma di figurazione idealizzata. Per l'artista torinese non si tratta di rappresentare qualcosa, ma di "introdursi" dentro il fenomeno. L'atto di rappresentare implica sempre una distanza tra l'oggetto e il soggetto, ma per Griffa introdursi dentro i fenomeni significa considerare la pittura come un evento e ripartire dal rapporto primario, fisico, che essa intrattiene con i materiali e i supporti. L'artista ha usato sovente l'espressione "rifare il mondo", in luogo di "rappresentare il mondo", proprio per indicare lo spostamento del soggetto da "fuori" a "dentro" il fenomeno.

Roberto Mastroianni ha giustamente scritto che "Griffa mette in atto […] un'attività conoscitiva che rifiuta la contrapposizione soggetto-oggetto e riconosce il mondo come un gioco di relazioni, e una continua, raffinata e ininterrotta re-interpretazione della tradizione pittorica" e ha aggiunto che egli "torna alla pittura, alle sue componenti essenziali e costitutive (punto, linea, superficie, tela e colore…), creando le condizioni per il manifestarsi stesso delle cose, attraverso un gesto della mano che libera l'intelligenza stessa della natura".5

La grammatica pittorica di Griffa si sviluppa, in questo senso, tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta, in lavori stringati e asciutti, caratterizzati da interventi pittorici minimali su superfici in massima parte vuote. Il ciclo dei cosiddetti Segni primari, che coincide con l'arco temporale dei lavori qui esposti, mostra sequenze di linee verticali, oblique, orizzontali su tele prive di cornice e telaio disposte direttamente sul muro per mezzo di piccoli chiodi.

Alle linee dipinte si sommano quelle generate dalla piegatura della tela, che disegnano una trama cartesiana di ombre sottili. Anche lo spazio vuoto della tela e gli intervalli tra un segno e l'altro sono elementi essenziali, allusioni a un'azione pittorica potenzialmente infinita. Bisogna tenere a mente, infatti, che per Griffa la pittura è un accadimento presente, un'epifania che non può mai essere definitivamente archiviata come "passata".

Presente è, infatti, la relazione del soggetto (pittore) con l'evento (pittura), che riattiva, come notavamo, tutta la sua millenaria storia. Condensata in ogni linea, in ogni colore, in ogni ritmo, è il farsi stesso della pittura, quel suo inevitabile attingere al fondo di se stessa e a tutte le tappe del suo glorioso cammino evolutivo.

La ripetizione segnica, altro elemento essenziale dell'opera di Griffa, ha un duplice valore. Da un lato, essa replica il modo con cui le forme naturali si evolvono, in una continua interazione con l'ambiente circostante, dall'altro si ricollega alla storia dell'arte come rilettura e reiterazione. D'altro canto, tale aspetto è facilmente riscontrabile nel modo in cui la plurisecolare ripetizione di certi temi, ad esempio quelli dell'iconografia pagana o cristiana, abbia generato esiti diversi e talora innovativi.

Per Griffa, fare e rifare il "mondo" a partire dai suoi segni elementari e costitutivi , è una forma di conoscenza dell'ignoto, cioè di quell'elemento sotterraneo dell'arte che egli ha poi esemplificato nell'allusione al numero aureo, il canone di proporzione e bellezza corrispondente al valore numerico 1,6180339887… Non è un caso, infatti, che a un certo punto nella produzione dell'artista, accanto ai segni primari, siano comparsi i numeri e gli arabeschi, quasi a segnalare l'importanza dell'elemento ritmico tanto in natura, quanto negli artefatti umani. In realtà, la sezione aurea è l'esempio più eclatante di questo gradiente ignoto, di questo sovrappiù irriducibile che, a differenza della pittura, le altre forme di conoscenza non riescono ad assorbire.

La relazione col mistero e con l'ineffabile, che rende la pittura affine alla religione, alla poesia e perfino alle pratiche divinatorie, consiste nella capacità di ricomporre aspetti multiformi e contradditori della realtà. Tramite l'ambiguità e la polisemia dei simboli, delle metafore, delle allegorie, dei segni, la pittura diventa una soglia percettiva tra l'universo conosciuto e l'ignoto. Come il Giano bifronte, essa guarda oltre il confine in entrambe le direzioni, all'esterno e all'interno, nel visibile e nell'invisibile.

Naturalmente, Griffa sa che attraverso il principio dell'esonero (Entlastung), la pittura coincide con un processo di produzione finzionale della realtà, di alleggerimento del mondo, ma non di annullamento della sua complessità. I segni elementari dell'artista, nella loro semplice, e a un tempo ambigua evidenza, sono, infatti, il prodotto di quella sintesi e condensazione. "Io esonero il mondo per conoscerlo e maneggiarlo", afferma Griffa, "cancello la rappresentazione del mondo, al suo posto lascio le immagini del segno e del pennello e attraverso di esse ritrovo il mondo nel meccanismo della finzione".6 È questo il senso della sibillina espressione "fare e rifare il mondo" e, allo stesso tempo, il più profondo significato della sua pittura.

 

  

1 Maria Teresa Pansera, Antropologia filosofica, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano, 2001, pp. 23-24.

2 Roberto Mastroianni, Quadri d'epoca e immagini del mondo, in AA.VV., Giorgio Griffa. Il paradosso del più nel meno, Gribaudo, Milano, 2014, p. 31.

3 Ivan Quaroni, Silenzio: parla la pittura, in Giorgio Griffa, Silenzio. Parla la pittura, Lorenzelli Arte, Milano, 2015.

4 Giorgio Griffa, Giulio Caresio, Roberto Mastroianni, Primo colloquio (11 luglio 2013), in AA.VV., Giorgio Griffa, Il paradosso del più nel meno, op. cit., p.74.

5 Roberto Mastroianni, Quadri d'epoca e immagini del mondo, in AA.VV., Giorgio Griffa, Il paradosso del più nel meno, op. cit., p. 14.

6 Giorgio Griffa, Giulio Caresio, Roberto Mastroianni, Secondo colloquio (15 luglio 2013), in AA.VV., Giorgio Griffa, Il paradosso del più nel meno, op. cit., p.122.

 

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 Pitture assolute. Giorgio Griffa, Tomas Rajlich, Jerry Zeniuk

Flaminio Gualdoni

 

“Bisogna ricordarsi che un quadro, prima di raffigurare un cavallo in battaglia, una donna nuda o un aneddoto qualsiasi, è in primo luogo una superficie piana ricoperta di colori assemblati con un certo ordine”1, aveva scritto Maurice Denis già nel 1890. E poco prima Paul Sérusier aveva dipinto il leggendario Le Talisman, che proprio Denis possiederà per molti anni.

È, quello, il primo momento in cui la pittura intuisce che la questione non è nemmeno un astrarre possibile rispetto alla sua tradizione iconografica stratificatissima, ma molto più: è pensare la pittura in quanto pittura, il dipingere in quanto atto autofondato e autosufficiente. Si delucida qui, è stato scritto, ciò che mutatis mutandis apparve chiaro già ai tempi d’esordio dei Carracci, “una nuova coscienza, che è coscienza critica dell’operare. Nasce qui, insomma, una concezione eminentemente critica dell’atto creativo”2.

In altri termini, la raison d’être della pittura non è il suo cosa (il rappresentato), e neppure il suo come (la presunzione di stile), ma il suo essere in se stessa un cheiropoieton assoluto (all’opposto del mito dell’acheiropoieton, la fissazione per misteriose vie metafisiche dell’immagine di Cristo “non fatta da mano umana”, quindi fondativamente autentica perché non artificiosa), una cosa fatta dalle mani dell’artista e nascente dal processo lucido di scrutinio intellettuale del suo stesso essere pittura.

Cioè qualcosa che trascende la teoria stessa, si fa posizione che scarta dalle genealogie certificate, per molti versi se ne sottrae ad altro mirando, a un’operazione pittorica che possa dirsi, in se stessa, assoluta.

Ciò vale per i pochi, tra gli esponenti della stagione straordinaria degli anni settanta, il cui percorso non si esauriva nella New Abstraction, nutrita di un “conceptual approach to painting”, già intuita nel 1963 da Ben Heller3, peraltro fondata sul valorizzare l’aspetto di mentalizzazione dei processi4, e non si poneva più il problema dell’astrazione non oggettiva e neppure quello, a sua volta per certi versi già ampiamente esplorato, della monocromia5, ma ad altro puntava.

In questa occasione si presenta l’opera di tre pittori il cui percorso pluridecennale trascende, pur mantenendosi fedele alle scelte di fondo, le contingenze specifiche di quella che è stata variamente indicata come “Analytische Malerei”, “Geplante Malerei”, “Fundamental painting”, eccetera, che pure li ha visti protagonisti6, in cerca d’un altro valore possibile di assoluto.

Essi sono Giorgio Griffa (1936), Tomas Rajlich (1940) e Jerry Zeniuk (1945). Generazionalmente, questi artisti maturano nella stagione in cui il non rappresentare non è più in questione, ma non ammettono nemmeno che l’oggetto pittorico possa ridursi ad algido esercizio dimostrativo di un pensiero altrimenti allogato, secondo la declinazione del concettualismo che tende inizialmente a prevalere. Il loro fare pittura si vuole esperienza effettiva, piena, coinvolgente la loro totalità fisica e intellettuale, priva ovviamente d’ogni tensione irrazionale di Nervenkunst ma intesa come momento effettivo di auscultazione profonda delle materie, dello spazio, del tempo specifico in cui si danno i fatti pittorici.

A proposito di Griffa, ben si avvede di tale consapevolezza Paolo Fossati sin dal 1968, in occasione della sua mostra di debutto: “Comunque lo si interpreti, dipingere è un atto gratuito: sia come assieme concettuale di atti, che come norma d’azione, che, infine, come presenza fisica […]. Una tela di Griffa è campita sino ad un certo punto, irregolarmente, poi torna a proseguire nuda: né la tela né il colore possono spiegare alcunché. Anzi, qui, incontrandosi, si combinano per rifiutare ogni significato: congiunti svuotano ogni lettura semantica, restituiscono il proprio gioco di reciproca attrazione all’astrazione della propria ideazione”7. Lo stesso artista ribadisce pochi anni dopo: “In realtà invece la stessa differenza fra linea e colore è illusoria perché dipende soltanto dalla larghezza del pennello o dal modo di appoggiarlo sulla tela. E se ne deriva una forma, questa non è altro che il risultato del senso e della durata delle pennellate. Il mio lavoro dunque consiste soltanto nell’appoggiare il colore dentro alla tela”8.

Nel 1982, poi, Griffa presenta “Matisseria” e altri lavori, ciclo in cui “la concentrazione del proprio orizzonte operativo nel punto-limite in cui l’immagine pittorica si dà nella sua genesi primaria, nell’interstizio significativo “in cui le relazioni non sono ancora rappresentazione”. E ancora, la scarnificazione estrema della componente di fattura, della possibilità di gesto (“appoggiare il colore dentro alla tela”), regolata da una neutralità che si erige a norma generale”, passa a tele in cui “la composizione per piani di colore, scandita da sensuosi ritmi lineari, di Matisse affiora sulla tela di Griffa come trama (tutta in superficie, proiettata virtualmente, come d’abitudine) di relazioni tra segni/colori caldi, che hanno acquisito addirittura spessori di trepida suggestione, assestati secondo organici andamenti orizzontali: l’arancio dei segmenti curvi, i verdi delle stesure piane, gli azzurri e i violetti delle chiazze con la portante rossa, ancora un azzurro e un motivo curvilineo”9. I monemi del pittorico, proiettati nella loro essenza storica, sono il fondamento dell’idea stessa di pittura, che si declina ora in Griffa per corsi che si fanno anche apertamente, e non meno lucidamente, poetici, e che lo conducono alla sontuosa stagione presente in cui abita ancora il possibile della bellezza.

[...]

In questi autori, Griffa, Rajlich, Zeniuk, dunque, l’esperienza critica della pittura nell’atto stesso del fare pittura, libera ormai da ogni zavorra teorica e disciplinare, mira a distillarne e ritrovarne l’identità sorgiva, il grado di autonoma, indefinita ma precisa, flagranza.

Essa è l’assoluto, o meglio un’idea di assolutezza (se non si voglia utilizzare, più pianamente, il termine pertinente ma più equivocabile di bellezza) che costeggia umori filosofici senza farsene portavoce, condizione snudata in una interrogatività che giunge far risuonare una sorta di diapason interno, totalmente irrelato, del dipinto.

 

 

1 “Se rappeler qu’un tableau – avant d’être un cheval de bataille, une femme nue ou une quelconque anecdote – est essentiellement une surface plane recouverte de couleurs en un certain ordre assemblées”: M. Denis, Théories 1890-1910, III ed., Bibliothèque de L’Occident, Paris 1913, p. 1.

2 A. Emiliani, La tecnica di Annibale e di Agostino nel periodo bolognese, in Les Carrache et les décors profanes, Actes du colloque de Rome (2-4 octobre 1986), École Française de Rome, Roma 1988, p. 6.

3 Toward a New Abstraction, catalogo della mostra, a cura di B. Heller, The Jewish Museum, New York, 1963.

4 Già Ad Reinhardt, Twelve Rules fo a New Academy, in “Art News”, vol. 56, n. 3, maggio 1957, pp. 37-38, 56, scrive: “Everything, where to begin and where to end, should be work