Arianna Bettarelli
Agito-agitante: paradigma questo forse consono a chi si predi- spone all’azione instillando scomode domande – invitando all’at- to – senza suggerire o confermare risposte. L’opera di Moroni si concede e si destina di fatto all’altrui coscienza nella piena totalità di forma e contenuto ma al contempo rimane parzialmente gra- nitica ed enigmatica. Infastidisce l’ambizioso, gratifica l’impedito, entrambi così costretti ad un vis à vis con sé stessi. Del resto, quasi come ad esercitare un atto di violenza, l’artista scompare dietro la propria regia sedendosi in platea e spingendo l’attore agli estre- mi di possibile e impossibile. Fuor di metafora, ostinato è nella presentazione di elementi contrapposti che emergono dapprimacome binomi, poi ulteriormente ramifica-bili. Tra gli estremi l’o- pera si abissa in base alla distanza che vi intercorre, nell’impos- sibilità di un accordo. Chi sembra avere la chiave torna sconfitto giacché concorre soltanto a moltiplicare la possibilità annullan- dola. L’ostinato procede, l’analitico torna indietro, eppure entram- bi smarriti rivengono alla forma. Questa, dotata di ingannevole chiarezza, si costituisce di elementi simulantesi: l’organico l’inor- ganico, il sacro il profano, l’alto il basso, il dogmatico lo scientifi- co, il privato il pubblico. L’occhio spasmodicamente indaga ma la soluzione non giunge: se ognuno può riporre nel tabernacolo la propria verità, possibile è tutto o nulla. Si scorge allora un’affinità con certe pratiche teatrali dell’assurdo. Se da un lato la violazione di personali credenze spinge a riconfermarle, dall’altro, l’illusione che vi sia una verità, costruisce un’anti-narrativa direzionata con ironia a mostrare dinamiche tipicamente umane per far fronte all’esistenza. Così, chi conserva con orgoglio un’attitudine dog- matica cadrà nel tranello del risolto; al contrario l’indeciso-illuso sprofonderà ancora nel dubbio. Citando l’Agamben de “L’uomo senza contenuto”, si ritrova nella produzione di Moroni quell’ “lo spettatore” che ”vede nell’opera d’arte, Sé come Altro, il proprio essere-per-sé come essere-fuori-di-sé (...).” Eppure, oltre il per- turbante ri-trovarsi come “Io nella forma dell’assoluta estrania- zione” che arriva a “possedersi solo all’interno di questa lacera- zione”, il fatto che, in Moroni, chi è pro-vocato viene “chiamato fuori” ad accertarsi e a contraddirsi, contribuisce a moltiplicare
la lacerazione. Tra l’assunto scientifico e il dogma, l’esistenziale è costantemente interrogato: dagli esiti si avverte una sensazione di impedimento, ironicamente travestito di fluidità – o viceversa. Moroni procede seguendo il limite sottile tra ironia spiazzante e spiazzanti verità – non uniche, talvolta vive, talvolta annullate. Si esercita all’estremo in conglomerati di materia, rovine e scompar- se nella presenza del ricordo. Moroni è solito trasformarci in inetti inducendoci ad uno stato di paralisi fuoriluogo – seppur dentro il “luogo”. Come un Bene che recita il Majakovskij nell’ ”Amato me stesso”, tra gorgogli, sussulti, schiarite ma sempre a sguardo fisso, la produzione di Moroni di apparente brutalità tonale, materica e concettuale, si veste di elegante velluto: atto poetico.
Mario Consiglio
Moroni è un artista libero, multimediale, capace di esprimersi con qualsiasi linguaggio. Notevole quest’ultima produzione materi- ca con lavorazione tessile dove concettualizza pittura e scultura distinguendosi con coraggio dalle attuali tendenze italiane intra- prendendo una ricerca che da un lato guarda la nostra tradizione postbellica di Manzoni, Castellani, Burri e Bonalumi e dall’altro le tendenze pittoriche neo astrattiste più attuali a livello internazio- nale come Bosco Sodi ,Sterling Ruby e altri artisti post vandalici. Le opere di Moroni sono tragicamente eleganti. L’alchimia di come lavora la materia ci riporta alla natura primordiale delle rocce, all’effimerità organica della carne e ad una macro visione dell’invisibile.
