"La vita è una danza nel cratere di un vulcano: erutterà, ma non sappiamo quando" Yukio Mishima, Lezioni spirituali per giovani samurai (1968-1970)
Il lavoro di Filippo Moroni (nato a Castiglione del Lago nel 1996, vive e lavora a Milano) si muove lungo una linea sottile, quasi impercettibile, che fende lucidamente l’apparenza dalla corporeità, il corpo dal travestimento, la forza dalla fragilità. In questa nuova serie di opere, scandita da una tavolozza cromatica precisa, che spazia dal rosso Borgogna al giallo dorato, dall’azzurro intenso alla più abissale tonalità di verde smeraldo, fino al nero profondo, l’artista esplora, con un gesto insieme fisico ed emotivo, le profonde tensioni dell’identità, della vergogna e del desiderio: temi universali che si manifestano hic et nunc attraverso la materia, sempre viva e pulsante.
Tutto inizia banalmente da un elemento grezzo, quasi triviale: il poliuretano espanso, che cresce e si deforma come una creatura autonoma, irregolare e imprevedibile, sfuggendo a ogni tentativo di controllo. Eppure Moroni non cerca di domare questa sostanza ribelle, la affronta direttamente. La colpisce, la modella, la sfida in una lotta intensa e profondamente personale. Il corpo dell’artista si misura con quello della materia, in un dialogo-scontro che parla di controllo e abbandono, resistenza e resa, una successione di tensioni corporee e psicologiche che si traducono in un’autentica esperienza fisica.
Qui si apre un confronto emblematico con la fenomenologia del corpo teorizzata da Maurice Merleau-Ponty, secondo cui, nella Fenomenologia della percezione, il corpo non è un semplice oggetto, ma un soggetto vissuto: luogo sensibile in cui esperienza e significato si intrecciano, aprendo l’individuo al mondo. L’opera di Moroni sembra incarnare questo precetto, in cui la materia non è più mera sostanza inerte, ma carne che parla, che si fa presenza e resistenza. Nel contatto corporeo con il poliuretano, l’artista attraversa quella soglia esistenziale che lo stesso Merleau-Ponty individua tra soggetto e mondo, tra percezione e corpo vissuto, portando alla luce la natura dialettica e incarnata dell’identità.
Poi arriva il velluto, luculliano per eccellenza: materiale morbido, sensuale, elegante, ma anche ambiguo, simbolo supremo di decoro, opulenza e seduzione. Non si limita a coprire ciò che è sottostante, ovvero il poliuretano espanso, ma lo avvolge e lo trattiene in un equilibrio precario; non protegge soltanto, ma al tempo stesso espone. Il velluto diventa così metafora di una rabbia trattenuta e di una dolcezza che ferisce o è ferita: l’ultimo strato che rimane dopo il trauma, quando la superficie si trasforma in maschera, pelle, armatura.
Velvet Rage si configura allora come lo spazio in cui il turbamento si concretizza in forma, e la forma si tramuta in linguaggio, dando voce a ciò che spesso resta inesprimibile.
Questo strato di pelle artificiale richiama inevitabilmente il pensiero di Jean-Paul Sartre e la sua analisi dell’altro come fonte di sguardo, giudizio, maschere sociali e condanna. Nel suo saggio L’essere e il nulla, Sartre descrive come l’identità si costruisca attorno alla necessità di una rappresentazione: una maschera che cela un sé vulnerabile, in lotta con la propria libertà. L’identità, per Sartre, non è un dato originario, ma un processo in continuo divenire, fondato sulla libertà e sulla responsabilità individuale. L’individuo, “condannato a essere libero”, si definisce infatti attraverso le proprie scelte e azioni. In questo contesto, il velluto di Moroni si configura non solo come materia tattile, ma come un dispositivo di difesa e al tempo stesso di esposizione: uno spazio in cui il sé si prostra
continuamente, oscillando senza sosta tra il desiderio di mostrarsi e quello di celarsi.
Coerentemente, il titolo della mostra, mutuato dal libro The Velvet Rage di Alan Downs, oltrepassa il riferimento concreto da cui prende origine e propone una chiave interpretativa alternativa, capace di illuminarne la portata psicologica e universale: “Every perfection you see is a mask, a construction to keep the scream inside”. La perfezione diventa così una maschera; il lusso, un rivestimento lucido, soffice e seducente che cela una forza primordiale e incontrollabile, che pulsa instancabilmente sotto la superficie.
Questa dicotomia tra superstrato e sostanza richiama, in parte, la filosofia di Friedrich Nietzsche che, nelle sue riflessioni sulla maschera e sul dionisiaco, suggerisce come l’apparenza non sia semplice illusione, ma una forma d’arte a pieno titolo, al contempo protezione ed espressione. Nietzsche invita a riconoscere il valore dell’arte come manifestazione della volontà di potenza, capace di trasformare la sofferenza in creazione e la vergogna in forza vitale.
Nel contesto della mostra, questa energia creatrice diventa intensa e percepibile, manifestandosi nella tensione tra ciò che si mostra e ciò che si sottrae allo sguardo.
L’opera di Moroni si muove esattamente su questa zona liminale, su quel displuvio in cui l’apparenza tenta disperatamente di celare, senza mai riuscirci del tutto, l’informe, il troppo, l’inespugnabile.
Difatti, come afferma l'artista stesso: “È una battaglia tra ciò che copre e ciò che non vuole essere coperto. Tra la superficie e la sostanza. Tra l’apparenza e l’urgenza”. Queste parole risuonano euritmicamente con un certo pensiero ceronettiano, secondo il quale “il piacere unisce i corpi, la pena le anime”; dove il corpo può apparire come un miracolo di carne, e la carne, nondimeno, restare un abisso di vergogna.
È a partire da tutti questi presupposti che, in questo nuovo corpus di opere, la sostanza stessa si fa carne: carne viva e palpitante che, mettendosi a nudo come la vergogna si espande, rompe i confini e si rende visibile, sfacciatamente inevitabile.
In questo cortocircuito perpetuo tra brutalità e carezza, attrazione e rifiuto, le opere di Moroni si offrono, in ultima istanza, come corpi voluttuosi, vulnerabili e fieri: percossi, ma ancora straripanti di desiderio. Spesso assumono un nome, quasi fossero persone, perché raccontano di chi guarda, di chi si nasconde, di chi ogni giorno è costretto a tradurre se stesso in qualcosa di leggibile o addirittura accettabile agli occhi degli altri, piegandosi così alle più bieche aspettative.
Attraverso questa continua tensione tra espansione e contenimento, élan vital e torpore, Filippo Moroni ci invita anche a costo di infrangere i divieti a sostare, senza mai sottovalutarla, su quella soglia scomoda dove la rabbia si fa bellezza e la pelle diventa un confine sottile, sempre più difficile da penetrare. Guardare le sue opere significa accettare il rischio di vedere per davvero ciò che siamo quando smettiamo di fingere; significa riavvicinarci, quanto più possibile, a ciò che André Gide chiamava i nutrimenti terrestri: elementi essenziali, autentici e profondi che, liberandoci dai vincoli morali e calvinisti, ci riconsegnano alla nostra umanità più piena, in sintonia con il fluire naturale della vita, nella sua stupefacente imprevedibilità.