La Mostra: O Canto do Rio di Antonio Kuschnir
di Barbara Magliocco
Esiste un luogo in cui l’improbabile e l’impossibile coesistono. Uno spazio in cui la materia sfiora il sogno e si reinventa a partire da sé stessa. La pittura di Antonio Kuschnir abita precisamente questo confine: una zona di transizione tra reale e immaginario, dove i dettagli si amplificano e la narrazione pittorica emerge come guida del gesto.
L’amore di Kuschnir per la pittura è visibile, ardente, quasi rituale. La sua pratica è al contempo un diario visivo e uno strumento di auto-conoscenza: un processo vitale che lo accompagna fin dall’infanzia. Vita e opera si intrecciano, l’una prolunga l’altra, in una danza in cui il corpo si fonde con il gesto.
Antonio intraprende un attraversamento pittorico profondamente allegorico e metalinguistico, in cui scenari immaginari e figure storiche si intrecciano nella trama delicata e instabile tra il nuovo e l’antico. In O Canto do Rio, Kuschnir propone un’archeologia visiva non solo dell’immagine, ma del soggetto pittorico stesso, che si costruisce e si dissolve ai margini simbolici della tela. Contemplando le sue opere, ci ritroviamo immersi in un territorio indeterminato, dove corpi e paesaggi abitano confini fluidi tra sogno, delirio e fabulazione allegorica. Le sue figure non provengono da una realtà oggettiva, ma da una profonda reinvenzione simbolica del sé, un io che si frammenta e si reinventa attraverso personaggi ibridi, metamorfosi e maschere in continua trasformazione.
Il titolo della mostra, O Canto do Rio, trae origine da un’opera presente in esposizione e custodisce in sé una polisemia significativa. “Canto” allude, da un lato, all’atto del cantare, una manifestazione lirica, una voce che si eleva per narrare, evocare, attraversare il sensibile. Dall’altro, richiama il “canto” come angolo, come spazio preciso e intimo: il margine di una casa, la curva di un paesaggio, un luogo di raccoglimento e appartenenza. In questa duplice accezione, il titolo si fa dispositivo poetico e spaziale: espressione del soggetto che canta e, insieme, geografia simbolica in cui quel canto risuona. È in questo intreccio tra voce e territorio, tra linguaggio e radicamento, che si colloca l’opera pittorica di Antonio Kuschnir. Ogni opera si presenta come frammento di una partitura visiva, strofa di un’unica canzone più ampia. Le sue figure, umane, animali, mostruose o mitologiche, sono archetipi di un io molteplice, costantemente in mutazione. Il lavoro con simboli, sogni, immagini ludiche e un immaginario fertile e selvaggio costituisce la spina dorsale del suo processo artistico.
Rio de Janeiro, città natale dell’artista, non è soltanto paesaggio d’origine, ma geografia affettiva e simbolica. È da lì che Kuschnir attinge immagini consce e inconsce, montagne che vegliano, alberi che sussurrano, uccelli che narrano. Questo universo esuberante, sensoriale e spesso contraddittorio modella il suo sguardo e popola la sua pittura come una mitologia quotidiana.
La mostra, presentata da ABC-ARTE a Genova, si articola in quattro sale e rappresenta finora la personale più ampia dell’artista. In ciascuno spazio, il visitatore è invitato a varcare portali visivi che rivelano creature, foreste, spettri, silenzi e deliri. L’inconscio emerge come matrice simbolica, come affermava Jung, i mostri marini che emergono da queste acque potrebbero essere proiezioni delle nostre stesse ombre.
All’ingresso, due dipinti introducono la narrazione: I dreamed a song of us e This way (my way). Quest’ultimo, iniziato nel giorno del compleanno dell’artista durante la sua residenza in Francia in 2025, è anche la prima opera creata per la mostra. Esso incarna un metodo pittorico che Kuschnir ha recentemente sviluppato: iniziare con pochi elementi e successivamente rivedere, stratificare, riscrivere. Un processo aperto, in continua evoluzione, che accoglie nuove significazioni ad ogni passaggio.
Nella seconda sala troviamo Aurora, la seconda opera più grande della mostra, che l’artista considera il suo grand finale. Realizzata a Bonn, in Germania, quest’opera richiama temi e simboli precedenti, il serpente, l’uccello, la tartaruga, le armature, che riemergono come echi visivi. Sullo sfondo, l’autoritratto dell’artista stabilisce un collegamento con This way, generando una narrazione circolare. Ma Aurora non è solo un nodo iconografico nella mostra: è anche un dispositivo scenico, un palco di tensioni simboliche, compositive e performative. Kuschnir costruisce l’immagine come se fosse un teatro aperto, dove ogni figura è al tempo stesso attore e spettatore. Gli sguardi, spesso diretti frontalmente verso chi osserva, rompono la quarta parete e creano un effetto perturbante: il quadro guarda il visitatore, lo chiama in causa, lo include nel dramma visivo. In questo senso, Aurora si allinea alla lezione di Las Meninas di Velázquez, non solo per l’impianto barocco, ma per la consapevolezza metapittorica dell’atto stesso del dipingere.
L’opera si fa allora spettacolo, mise-en-scène, costruzione scenica in cui i piani si sovrappongono come quinte teatrali: lo sfondo dialoga con il primo piano, i personaggi con l’autore, la finzione con l’intimità. Le armature e le maschere diventano costumi; gli animali, presenze totemiche; le posture, gesti drammatici congelati in un tempo immobile. L’artista si rappresenta nel cuore della composizione, non come narratore onnisciente, ma come corpo vulnerabile immerso nella narrazione. In Aurora, il teatro non è solo evocato: è incarnato nella struttura dell’immagine e nella tensione che questa costruisce con lo spettatore.
Questa teatralità diffusa attraversa anche le altre opere della mostra, ma trova in Aurora una sintesi potente, dove la pittura si fa azione, presenza scenica e riflessione sulla propria natura. Kuschnir dipinge come se allestisse un rito, in cui ogni figura è chiamata a testimoniare, e ogni osservatore, a partecipare.
Nella stessa sala si trova A Barriga da Terra, concepita in dialogo con O Canto do Rio. Entrambe le opere mettono in scena una tensione tra pacificazione e conflitto: personaggi quieti convivono con simboli di violenza: spade, armature, creature fantastiche. Un drago legato da un nastro delicato simboleggia questa dicotomia tra forza e vulnerabilità, evocando l’estetica surrealista dove l’impossibile si fa possibile.
La terza sala, la più vasta del percorso espositivo, accoglie dodici opere di diversi formati e sviluppa una delle linee tematiche più intense della mostra: la narrazione delle creature. La serie Creatures I, II, II” porta queste figure in primo piano, elevandole a protagoniste assolute. Non si tratta di “mostri” nel senso tradizionale e svalutativo del termine, ma di entità che abitano i margini del visibile e del dicibile: creature ibride, ambigue, che sfidano ogni classificazione morale. Non sono né buone né cattive, ma portatrici di ciò che sfugge al controllo razionale, figure dell’eccesso, del desiderio, del caos creativo.
Per Kuschnir, queste presenze non rappresentano una minaccia, bensì una possibilità. Sono emanazioni dell’inconscio, incarnazioni del mistero, del sogno, dell’indomabile. Rappresentano quella parte di noi che resiste alla normalizzazione, che rifiuta la linearità del pensiero logico e reclama il diritto alla metamorfosi. L’artista conferisce loro un’autonomia simbolica e una dignità iconografica: esse esistono e persistono nel mondo pittorico non come semplici allegorie, ma come forze vitali, come agenti della trasformazione.
In queste tele, Kuschnir non tematizza la paura del mostruoso, ma la sua necessità: ciò che ci inquieta è anche ciò che ci rivela. Le creature diventano, così, specchi deformanti e sinceri del nostro io plurale. Sono figure dell’alterità, ma anche dell’intimità più profonda. In loro risiede una forma di sapere non lineare, poetico e visionario, che attraversa tutta la mostra come un controcanto visivo.
Il culmine della mostra è Venus (after Manet and Titian), un’opera monumentale che stabilisce un dialogo serrato con Olympia di Manet, a sua volta eco della Venere di Urbino di Tiziano, ma che rompe con ogni canone per affermare una voce radicalmente personale. In questa composizione, Kuschnir si autoritrae nudo, vulnerabile, esposto non solo allo sguardo dell’altro, ma anche a quello, più spietato, di sé stesso. Intorno a lui, non ancelle né oggetti decorativi, ma presenze disturbanti: creature interiori che abitano le pieghe dell’inconscio, figure ambigue che rivelano ciò che la coscienza tenta invano di reprimere.
Qui il corpo si offre come una scultura incompiuta, come nelle Prigioni di Michelangelo, dove l’anima sembra lottare per liberarsi dalla materia. Kuschnir non si limita a citare la tradizione: la smonta, la reinventa, la fa esplodere in nuove possibilità espressive. L’impianto è classico, ma la scena è pervasa da un’inquietudine contemporanea, da un’energia tellurica che sovverte ogni equilibrio.
In Venus, lo sguardo dello spettatore è catturato, quasi intrappolato, in un sistema di rimandi visivi e simbolici. Ogni dettaglio è carico di tensione emotiva: la pelle, gli occhi, le ombre. È un quadro che non si limita a essere visto, chiede di essere attraversato. Qui la pittura non illustra: interroga, destabilizza, possiede. È un invito a spogliarsi delle proprie maschere, come fa l’artista, e a sostare per un istante in quello spazio fragile e potentissimo dove la bellezza incontra il perturbante.
Sempre in questa sala si trova O Canto do Rio, l’opera che dà il titolo alla mostra e ne rappresenta la sintesi visiva più potente. Una corrente d’acqua taglia la composizione verticalmente, come un fiume simbolico che divide e al tempo stesso collega mondi differenti. Ai suoi lati, cavalieri rinascimentali si affrontano in una scena teatrale e solenne, armati di spade e corazze, evocando un’iconografia epica che attraversa secoli di pittura storica europea.
Ma l’equilibrio viene scosso da presenze inaspettate: tra le figure compare una tigre selvaggia, dalla pennellata densa e vibrante, che richiama esplicitamente le creature primordiali di Antonio Ligabue, simbolo della forza istintiva, del selvaggio che irrompe nell’ordine umano. L’intero scenario è immerso in una vegetazione rigogliosa e tropicale, che confonde le coordinate geografiche e trasforma lo spazio pittorico in una giungla archetipica. In O Canto do Rio, Kuschnir costruisce un palinsesto visivo: ogni figura è un segno, ogni animale una soglia, ogni pianta un’eco. La scena si offre come un affresco psichico, una mappa di forze in tensione, che invita lo spettatore a smarrirsi e ritrovarsi nei meandri di un racconto senza tempo.
A chiudere il percorso, The Gift (I Give You My Love) si presenta come un gesto di offerta. Una figura femminile porge un ramo di foglie, un dono simbolico, un congedo affettivo. I ricami, i dettagli minuziosi dell’abito, tutto invita a una visione attenta e sensibile.
La pittura di Kuschnir non richiede comprensione immediata, ma disponibilità. Ogni tela è un invito ad appartenere, a smarrirsi, a reinventarsi dentro una fantasia possibile. Il pubblico è libero di attraversare simboli e segni, di vagare tra immagini e costruire la propria narrazione. Si coglie qui una sintonia poetica con Manoel de Barros, poeta brasiliano, nella sua capacità di fondere il quotidiano e il mitico, il minimo e l’essenziale, reinventando la realtà attraverso la forza dell’immaginazione. La sua frase: “Tutto ciò che non invento è falso”, sembra echeggiare in ogni opera di Kuschnir, dove il mondo visibile è quello che abbiamo il coraggio di sognare.
O Canto do Rio è uno spazio espanso di fabulazione, dove la pittura si fa gesto ontologico. Antonio Kuschnir ci ricorda che l’immagine non riflette semplicemente ciò che è, ma può ricreare ciò che ancora non esiste. Attraversare le sue opere significa attraversare miti, archetipi, memorie e deliri e forse, lungo questo cammino, ritrovare anche una parte di noi stessi.Antonio Kuschnir: Il fiume, il mito e lo specchio
di Pedro Scudeller
1. Riflessi della sorgente, l’automitologia
È difficile sapere, a primo sguardo, da dove provengano le figure che abitano la pittura di Antonio Kuschnir. Appaiono spesso come personaggi ibridi, creature in transito, in metamorfosi, sospese in uno spazio ambiguo tra il tropicale e l’onirico, tra la memoria intima e la fabulazione visiva. Ma questa difficoltà di origine, questa impossibilità di determinare con precisione una fonte o un genere per le sue immagini, non è un problema da risolvere, bensì la materia prima del suo lavoro. La pittura di Kuschnir non rappresenta, reinventa. Reinventa il corpo, il paesaggio, i ruoli, i gesti e, soprattutto, reinventa il soggetto che dipinge. È in questo gesto inaugurale che nasce il concetto di automitologia, formulato dall’artista come chiave per comprendere non solo cosa dipinge, ma come e perché lo fa.
Nella sua tesi di laurea, Kuschnir propone l’automitologia come processo poetico di costruzione simbolica del sé. Diversamente dall’autobiografia, che cerca un patto di verità con il passato, l’automitologia nasce dall’esperienza individuale per elaborare, a partire da essa, una mitologia personale, ovvero un insieme di immagini, narrazioni, segni e atmosfere che inventano l’io senza ridurlo alla fedeltà dei fatti. Ciò che interessa all’artista non è la narrazione cronologica del vissuto, ma la sua rielaborazione poetica. Il soggetto dell’automitologia è colui che si trasforma in figura, non soltanto figura della memoria, ma figura del delirio, della teatralità, dell’impossibile.
Questo soggetto fabbricato è incarnato dallo stesso pittore, ma non si limita a lui. Nelle parole di Kuschnir: “creare una automitologia significa permettere che la mia immagine si dispieghi in ruoli, che la mia storia si trasformi in scene e che queste scene rivelino qualcosa che il racconto diretto non potrebbe enunciare”. La pittura diventa così un palcoscenico simbolico dove l’artista mette in scena versioni diverse di sé, versioni che possono essere grottesche o sublimi, animalesche o spirituali, violente o delicate. Questa molteplicità di registri è proprio ciò che distingue l’automitologia da una pratica autobiografica tradizionale: in gioco non c’è l’unità di un io che si racconta, ma la molteplicità di un corpo che si finzionalizza.
La costruzione di questa mitologia intima coinvolge un repertorio di personaggi e simboli ricorrenti: esseri che si ripetono in diverse tele e in diversi ruoli, come se fossero attori di una drammaturgia visiva continua. Ci sono maschere, specchi, vegetazioni, animali, strutture architettoniche ambigue. C’è un corpo che si piega, si nasconde, si mostra in pose quasi teatrali, come se fosse sempre sul punto di assumere una nuova forma. E c’è, soprattutto, un’insistenza nel figurarsi: non come chi cerca di riconoscersi, ma come chi desidera moltiplicarsi. Kuschnir dipinge sé stesso, ma mai nello stesso modo. L’autoritratto, qui, non è un luogo di fissazione dell’identità, ma un territorio di reinvenzione.
Se c’è una costante in questo processo, non è nell’immagine in sé, ma nel gesto del ritornarvi, del riformularla. L’artista si dipinge come corpo tropicale, come entità ibrida tra umano e animale, come figura in sofferenza o in estasi, come santo barocco, come naufrago, come spettro, come danzatore. Ogni incarnazione corrisponde a una situazione simbolica, forse a una scena psichica, che non si pretende vera, ma necessaria. La verità, qui, non è fattuale, è simbolica. La pittura si trasforma in una sorta di rito o di incantesimo: qualcosa che non cerca di spiegare la realtà, ma di trasformarla.
Kuschnir riconosce nella sua tesi che il termine automitologia dialoga con le tradizioni della letteratura e dell’arte moderna, ma propone un’inflessione personale: invece di costruire un sistema simbolico universale o mitologico in senso classico, crea un vocabolario intimo, che parte dal corpo e dall’immaginario personale per organizzare una cosmogonia pittorica. È come se la pittura fosse una lingua attraverso la quale l’artista possa parlare di sé, ma sempre in modo cifrato, obliquo, fabbricato. In questo modo, Kuschnir si inserisce in una lunga linea di creatori che hanno fatto di sé stessi materia dell’arte, ma lo fa attraverso una pittura radicalmente allegorica, in cui l’io non appare mai se non sotto maschere, spostamenti e trasformazioni.
In questo senso, il concetto di automitologia può essere compreso come un metodo. Un metodo che si fonda sull’instabilità del soggetto e sulla potenza della finzione come forma di autoconoscenza e di invenzione. È un processo continuo, rizomatico, in cui ogni nuova opera dialoga con le precedenti, ma allo stesso tempo sposta il sistema, ne amplia il campo, ne disorganizza la coerenza. L’automitologia, come afferma lo stesso artista, non è un progetto chiuso, ma un campo in espansione, una geografia mobile del sé, dove i confini si sfumano e l’identità diventa un territorio di sperimentazione.
In questa proposta c’è una radicalità politica e poetica. Rifiutando l’autoritratto come cristallizzazione dell’io e insistendo sulla metamorfosi come modalità di esistenza pittorica, Kuschnir indica una soggettività mutante, che si costruisce nell’interspazio tra immagine e assenza, figura e allegoria, memoria e invenzione. L’automitologia diventa così anche una critica all’idea di identità fissa, e un invito ad abitare i divenire del proprio corpo.
C’è un’immagine ricorrente che torna sempre quando si parla del rapporto di un artista con la sua tela: quella del confronto. Ma nel caso di Antonio Kuschnir, il confronto non è una metafora, è un metodo. Per lui, la pittura è, come afferma lui stesso, un “campo di battaglia in costante contraddizione”. Ogni tela non si risolve, si scontra. È un terreno dove forze inconciliabili si incontrano e si contaminano: il gesto controllato e l’incidente, la posa e la perdita di forma, il simbolo e il rumore, l’intimo e lo storico. Kuschnir dipinge a partire da questo attrito, non cerca la conciliazione, ma la scintilla che nasce dallo scontro.
Questa immagine del campo di battaglia rimanda direttamente alla celebre frase di Philip Guston, secondo cui il pittore, davanti alla tela, “è il pubblico ministero, l’imputato, l’avvocato, il giudice e la giuria”. In altre parole, l’artista è tutti i ruoli insieme, è colui che si mette sotto processo, ma anche chi recita, chi distorce, chi assolve, chi si sabota e chi si salva. In Kuschnir, questa dinamica del tribunale intimo si mette in scena pittoricamente come una drammaturgia dell’io: i suoi personaggi, i suoi corpi, i suoi ruoli orbitano attorno a questo processo permanente, dove l’io non è mai uno, ma sempre uno spettro di sé stesso. C’è colpa, c’è farsa, c’è espiazione e c’è eccesso. La tela è palco e tribunale.
Tuttavia, questo palco non è piatto. È, per usare l’espressione di Georges Didi-Huberman, un palinsesto di presenze. Così come il teorico francese descrive in L’image survivante l’immagine come campo di sopravvivenze, dove fantasmi, tempi eterogenei e segni storici si sovrappongono, anche la pittura di Kuschnir si costruisce per strati, e non come superficie liscia. Ogni scena fabbricata che dipinge è allo stesso tempo iscrizione e sovrapposizione: vi convivono mitologie personali, pulsioni corporee, eredità tropicali, frammenti della storia dell’arte, allegorie della sessualità e tensioni sociali contemporanee. L’immagine non si chiude, trabocca.
Per questo motivo, la sua pittura non può essere intesa solo come narrazione. Non si allinea, non si risolve in una trama. Al contrario, si apre come testimonianza, ma una testimonianza che non afferma né nega, che non propone un discorso univoco, ma una forma di presenza ambigua. Ciò che testimonia, lì, è il processo stesso di confronto tra l’artista e i suoi fantasmi. Il pennello oscilla tra il controllo e il rischio, la figura appare per poi subito disfarsi, il simbolo si stabilizza solo per essere corroso. Quello che si offre allo sguardo non è l’immagine di una certezza, ma la visualità di un dilemma.
Questo gesto, radicalmente contemporaneo, non rifiuta la tradizione, al contrario, Kuschnir la mobilita. Ma la mobilita come chi fruga in un archivio, come chi rimette in scena un mito antico con nuove maschere, nuovi corpi, nuovi abiti. La tela si trasforma così in un dispositivo di incontri: tra classico e tropicale, barocco e queer, pittura religiosa e scena del delirio. Da questa costellazione emerge uno spazio che non si chiude mai del tutto, uno spazio immaginale, instabile, poroso. La tela è territorio di collisione, ma anche di riconciliazione simbolica, seppur provvisoria.
Così, la pittura di Kuschnir non rappresenta solo un io in crisi o in invenzione. Mette in scena la condizione stessa dell’immagine nella contemporaneità: un’immagine che non è indice, ma rovina, non è specchio, ma teatro, non è riflesso, ma invenzione di un riflesso che non è mai esistito. La sua pittura è, in questo senso, una macchina simbolica: opera per giustapposizione, spostamento, riemersione e trasfigurazione. Il tempo non è lineare, il corpo non è fisso, la scena non è chiara. Tutto pulsa in un ritmo di ritorno differito, come direbbe Didi-Huberman, il ritorno di qualcosa che forse non è mai esistito, ma che insiste nel riapparire.
Kuschnir dipinge sé stesso non per rappresentarsi, ma per sfigurarsi poeticamente. Ed è in questa operazione che la sua automitologia prende corpo come forma estetica e politica: è un modo per resistere alla cancellazione, alla semplificazione, alla fissazione identitaria. La tela è contraddizione aperta. Dipingere, qui, è un gesto etico ed esistenziale, è decidere di tenere aperta la ferita della forma, la fessura del senso, l’instabilità dell’io.
Questa operazione singolare, come vedremo, deve essere compresa non isolatamente, ma in dialogo con la storia della pittura brasiliana, con i dibattiti contemporanei sull’identità, con le intersezioni tra figurazione e finzione, e con il progetto espositivo di O Canto do Rio. Ma bisogna iniziare da qui, dove tutto ha inizio: da questo gesto inaugurale di dipingersi come chi si inventa, come chi fonda un mondo allo stesso tempo intimo e mitologico, fatto non per rappresentare il passato, ma per sognare il presente in immagini.
2. Correnti e confluenze, movimenti della pittura
La traiettoria della pittura in Brasile dalla seconda metà del Novecento è segnata da andirivieni, cancellazioni e risorgenze. Negli anni Sessanta e Settanta il campo artistico fu profondamente impattato dalle avanguardie concettuali e dalle poetiche della dematerializzazione, l’experimentalismo concretista, il minimalismo, l’arte povera, la fotografia, la performance e l’installazione instaurarono un regime critico in cui la pittura cominciò a essere vista spesso come linguaggio esaurito, ideologicamente ingenuo o formalmente conservatore. La materialità del colore, la figura, il gesto tutto sembrava rimandare a un passato preconcettuale che allora il discorso artistico voleva superare. Eppure, anche all’ombra di queste critiche, la pittura rimaneva attiva, tesa, latente.
Questa latenza diede origine negli anni Ottanta a una vigorosa ripresa sul piano internazionale. Il neo‑espressionismo tedesco (Georg Baselitz, Anselm Kiefer, Jörg Immendorff) e la Transavanguardia italiana (Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi) sfidavano i dogmi concettuali del post‑minimalismo riportando alla scena la figura umana, i miti arcaici, la violenza del colore e la dimensione affettiva della pittura. Questa ripresa della pittura negli anni Ottanta fu al tempo stesso recupero e reinvenzione, non si trattava di tornare a una tradizione accademica, ma di instaurare su di essa un campo di attrito tra residuo della storia e fantasmi del presente.
In forte dialogo con gli sviluppi internazionali, nel Brasile degli anni Ottanta la pittura riemerse come campo di reinvenzione soggettiva, con forza narrativa, libertà gestuale e nuova coscienza storica grazie anche al contesto politico della ridemoscrazia dopo due decenni di dittatura militare che offrì terreno fertile a un’esplosione del sensibile. Ci fu un movimento di riappropriazione della figurazione, del colore, della spessore materiale del pigmento e della performance come gesto pittorico, recuperando la pittura come modalità di reinvenzione narrativa e pittorica. Mostre come Come vai te Geração 80? e BR/80 illuminarono giovani artisti che rivendicavano la pittura come linguaggio capace di rievocare affetti, deliri, gesti ed eccessi. Nell’Ateliê Casa7, uno dei nuclei più emblematici dell’epoca, artisti come Nuno Ramos, Rodrigo Andrade e Carlito Carvalhosa svilupparono una pittura segnata dalla macchia, dalla fisicità della superficie, dalla velocità del gesto non per restaurare un ordine formale, ma per instaurare un nuovo campo di possibilità simboliche.
È in questo contesto che Marco Giannotti, in Breve Storia della Pittura Contemporanea, propone tre categorie centrali per comprendere la pittura a partire dagli anni Sessanta: il gesto, la materia e la narrazione. Il gesto, nella pittura contemporanea, non è più soltanto il segno del corpo dell’artista sulla tela. È anche indice del tempo, dell’esitazione, della perdita. La pittura post-1960 non può più essere compresa come semplice continuità del progetto moderno: essa porta in sé il crollo delle sue promesse. Ed è proprio da questo crollo che emerge una nuova consapevolezza: il gesto diventa prova del fallimento, del dubbio, dell’incompiutezza, l’opposto del dominio tecnico, l’antitesi dell’assertività formale. È un’iscrizione vulnerabile nello spazio dell’immagine, una scrittura spezzata tra ciò che si desidera e ciò che si può dire. E nella pittura brasiliana post-anni Ottanta questo gesto assume uno spessore storico.
Anche la materia pittorica, in questo contesto, smette di essere semplice supporto e diventa campo di scontro simbolico. Come nota Giannotti, la materia nella pittura contemporanea non è neutra: porta con sé residui, evocazioni, rumori; smette di obbedire a una logica decorativa o rappresentativa e inizia a comportarsi come un palinsesto sensibile. Pittori come Paulo Pasta, ad esempio, operano con una tavolozza sobria, costruendo relazioni delicate tra strati, luci e cancellature. Altri artisti come Adriana Varejão, Daniel Senise o Nuno Ramos investono nella materia come residuo, come indizio del reale violento e irrapresentabile — sia attraverso la fessura, l’impasto o l’incollaggio di rovine. La tela smette di essere finestra e diventa territorio di conflitto.
Infine, la narrazione — o meglio, la resistenza alla narrazione — emerge come un altro campo di tensione. Giannotti osserva che la pittura contemporanea vive sotto il segno della frammentazione: il collage, la giustapposizione, il taglio, lo spostamento diventano strategie per articolare significati non lineari. Le immagini non raccontano più storie: costruiscono costellazioni. Come ci ricorda Aby Warburg, ogni immagine porta con sé fantasmi. La pittura diventa così luogo di sopravvivenza, dove mitologie personali, culturali e collettive si incontrano in attrito.
Nella pittura brasiliana degli anni Novanta, da un lato alcuni artisti iniziano a costruire poetiche in cui la materia pittorica si comporta come archivio, come superficie contaminata, come pelle o ornamento. La tela, in questo periodo, diventa sempre più un campo espanso, in cui collage, fessure, tagli e texture si fanno modalità per narrare l’irrappresentabile. Dall’altro lato, all’interno degli atelier e delle scuole d’arte, un’altra corrente di artisti avvia un ritorno attento alla pittura “in sé” — al gesto contenuto, alla luce costruita, al colore come struttura, assumendo un ruolo di mediazione tra la densità storica della pittura e il suo potenziale per un lirismo silenzioso.
È a partire da questi due vettori — il campo espanso della materia e l’indagine rigorosa della forma — che si sviluppa, negli anni Duemila, una nuova generazione di pittori. Il gruppo 2000e8, nato attorno a Paulo Pasta, segna una posizione critica nei confronti dell’egemonia della performance e della fotografia nel circuito istituzionale. Ana Elisa Egreja, Bruno Dunley, Regina Parra, tra gli altri, iniziano a operare con una pittura figurativa, sensibile, architettonica, spesso malinconica, dove il corpo e la casa si confondono, dove gli spazi diventano psicologici e dove il tempo sembra sempre in sospensione; la loro pratica riafferma la tela come spazio di enunciazione poetica e sensoriale — anche se contenuta, anche se ambigua.
Se da un lato artisti come Egreja, Rodolpho Parigi e Rafael Carneiro costruiscono universi pittorici narrativi, ma sempre sull’orlo dell’allucinazione, del nonsenso o dell’iperrealismo fantasmatico, dall’altro la pittura astratta resta viva in nomi come Marina Rheingantz e Lucas Arruda, che trasformano la tela in un orizzonte irraggiungibile, in un territorio dell’indicibile. In entrambi i casi, la narratività si realizza per convocazione poetica, non per linearità discorsiva. Lo spettatore non legge la pittura: la abita, con tutti i rischi dell’erranza e dell’imprecisione.
Negli ultimi decenni, dunque, la pittura in Brasile si è rafforzata come linguaggio centrale del circuito artistico, sia sul piano istituzionale che su quello di mercato. Questo protagonismo è dovuto in parte alla facilità di riconoscimento pubblico della pittura come “luogo dell’arte”, ma anche alla sua malleabilità di fronte alle esigenze critiche contemporanee. La pittura resta un luogo di desiderio, invenzione e attrito. Come abbiamo visto, si può osservare, in linea generale, che l’attuale panorama della pittura brasiliana si divide — in modo non esclusivo — tra una pittura che indaga i propri codici (la luce, la fattura, il gesto, la struttura) e un’altra che utilizza l’immagine come dispositivo simbolico per affrontare questioni sociali: razza, genere, sessualità, politica, spiritualità, ecologia. Questa tensione — tra la pittura che parla di sé e quella che parla del mondo — caratterizza la potenza della produzione contemporanea.
Vi sono anche artisti che operano nella piega tra questi due percorsi, creando opere che sono simultaneamente espressive e politiche, simboliche e discorsive. Ed è proprio in questo punto d’intersezione, dove tradizione e sperimentazione si incontrano, che situiamo la pratica di Antonio Kuschnir, in questo spazio instabile, tra introspezione formale e affermazione simbolica, tra eredità storica e sperimentazione soggettiva. La sua pittura non eredita questo panorama come qualcosa di già risolto: lo attraversa. Kuschnir mobilita il gesto esitante, la materia intensa e la narrazione allegorica come vettori della sua pratica personale — la pratica che lui stesso definisce automitologia. Nella sua opera il gesto non afferma, ma mette in scena; la materia non rappresenta, ma pulsa; la narrazione non spiega, ma fabula. La sua pittura è un teatro intimo e rituale, in cui si mette in scena il possibile e l’impossibile, l’infanzia e la maschera, il delirio e la memoria.
3. Maree dell’essere, scena e trasformazione
Se la pittura brasiliana contemporanea, come abbiamo visto, è attraversata da tensioni tra sperimentazione formale e urgenza discorsiva, tra eredità e rottura, l’opera di Antonio Kuschnir si colloca proprio nell’intermedio tra fabulazione intima e campo critico, tra tradizione europea e reinvenzione tropicale, tra corpo e suoi piegamenti simbolici. La sua pittura non nasce dal desiderio di schierarsi da una parte o dall’altra, ma dal rifiuto della dicotomia. Kuschnir fonda in ogni opera uno spazio intermedio, meglio eccentrico, dove l’immagine non illustra ma agisce, dove l’io non si rivela ma si mette in scena, dove il linguaggio visivo diventa mitologia personale e gesto politico.
Quel gesto è l’espressione viva della sua automitologia, l’operazione concreta di Kuschnir. Egli non dipinge per rappresentarsi, ma per dare corpo a un’esistenza multipla, allegorica, rituale. La pittura diventa il luogo in cui l’artista può essere animale, spettro, santo, martire, bambino, uomo, donna, nessuno. Ogni figura è un ruolo da abitare, una maschera indossata non per nascondere ma per moltiplicarsi. Come Artaud per il teatro e Didi‑Huberman per l’immagine, Kuschnir assegna alla pittura il compito di rendere visibile ciò che insiste nel non sparire – dolore, desiderio, mito, assurdo, bellezza irriducibile dell’impossibile.
Quell’impossibile è materia prima della sua poetica. Le tele di Kuschnir non mirano al verosimile ma all’intensità. I corpi si piegano in modi improbabili, gli occhi si moltiplicano, i gesti si fermano nel mezzo del delirio. Le sue composizioni evocano narrazioni sempre aperte, costellazioni simboliche in cui ogni elemento si relaziona a tutti gli altri tramite echi e vibrazioni, non da causalità lineare. Questa non linearità si riflette anche nel modo di lavorare di Kuschnir, come se cercasse nella pittura un’archeologia emotiva di sé, non un’origine ma una sopravvivenza.
Questa archeologia personale si intreccia con l’archivio della storia dell’arte. Kuschnir è artista latino‑americano che vive e lavora in Europa e questo transito geografico e simbolico è strutturante, non occasionale. Come Tarsila do Amaral a Parigi, Mira Schendel in Svizzera, Iberê a Roma, si situa nella tradizione degli artisti del sud che guardano verso nord non con riverenza ma con desiderio di mescolanza. L’Europa nella sua pittura non è un canone da seguire ma un territorio simbolico da riordinare. Kuschnir lo riordina con la materia della sua esperienza tropicale, con la luce del suo paese, con la sessualità inquieta dei suoi corpi, con la teatralità barocca della sua infanzia, con la violenza e la bellezza che attraversano il suo sguardo.
Fin da giovane Kuschnir mantiene un rapporto intenso con la tradizione: Rubens, Tintoretto, Tiziano, Pontormo, ma soprattutto Matisse, maestro non solo del colore e della composizione ma dell’etica dell’atelier. Da Matisse impara che dipingere è anche ripetere, prendersi cura, fare silenzio. In quel silenzio laborioso egli attiva l’eredità dei vecchi maestri non come monumenti morti ma come presenze viventi che respirano nei suoi gesti. Se appare una citazione non è mai letterale ma sempre spostata, fabulata, recitata. Come un attore che improvvisa Shakespeare, Kuschnir dialoga con la storia dell’arte reinventando codici deformandoli, tropicalizzandoli, feminilizzandoli, brasilianizzandoli.
Questa deformazione non è distruzione ma atto d’amore. La tradizione nella sua pittura è materia organica che può essere toccata, modellata, riappresa. Le figure classiche appaiono contorte, ampliate, spostate non per disfare ma per guadagnare nuova vitalità. Kuschnir non teme il canone perché lo comprende come linguaggio vivo che si trasforma con l’uso. Nelle sue mani i gesti barocchi, manieristi, sacri si riconfigurano come atti queer, favolosi, tropicali. Non c’è parodia ma rientusiasmo. L’idea stessa di automitologia si espande con questo gesto. Se in precedenza ne parlavamo come metodo di auto‑invenzione, qui si rivela anche come linguaggio critico: modo di appartenere e disobbedire al tempo stesso.
Kuschnir si iscrive a una linea che va da Frida Kahlo a Louise Bourgeois, da Pierre Klossowski a Leonilson, artisti che fecero di sé un campo di operazioni simboliche in cui l’intimo è sempre anche collettivo. Dipingendosi animale, santo, corpo in trance non cerca confessione ma trasformazione. E in quella trasformazione la sua pittura diventa politica.
Questa politica non è denuncia ma reconfigurazione del sensibile come propone Jacques Rancière. Kuschnir non urla ma interpella. Le sue figure non esigono ma inquietano. Persistono nello sguardo ponendoci domande: e se tu fossi questo? E se dentro te esistesse questo altro possibile? La sua pittura ci invita all’alterità non dell’altro esterno ma di quello che ci abita. È un invito profondamente etico che ci sfida a immaginare il mondo non com’è ma come potrebbe essere.
Le sue immagini non sono allegorie fisse ma zone di passaggio. La tela è meno un campo di rappresentazione che una superficie di collisione. Lì il corpo incontra il colore, il gesto incontra la memoria, la tradizione incontra il delirio. Tutto è in transito: identità, narrazione, tempo. Come dice Didi‑Huberman l’immagine sopravvive perché pulsa. Ciò che vediamo è ciò che insiste nel non sparire. Kuschnir ci offre queste sopravvivenze: frammenti di miti personali, rovine di un io che si reinventa ogni quadro, fantasmi tropicali che danzano ancora sotto il sole d’Europa.
Ed è questo processo tra teatro dell’intimo e coreografia del dislocamento che prepara il terreno per la mostra O Canto do Rio. Questa serie di opere recenti concretizza e approfondisce le dimensioni centrali della sua poetica: fabulare l’identità, radicamento mobile tra territori, la pittura come spazio in cui l’io si moltiplica in scena, in cui l’impossibile assume forma visibile e in cui il fiume che scorre tra sponde finalmente impara a cantare.
4. Il fiume che canta: flusso, trasformazione e incontro
La pittura, nella sua forma più viva, pulsa tra la pelle e il mondo. Quando si trasforma in canto, si espande, diventa rito, paesaggio interiore, enunciazione di un tempo che sfugge alla logica e si installa nel corpo. È così che si delinea il gesto di Antonio Kuschnir: una pittura che non narra ma fabula, che non si spiega ma convoca. Nella mostra O Canto do Rio, questa vocazione si cristallizza in territorio: 29 opere che non formano una serie, ma una costellazione. Frammenti intimi messi in scena come miti personali, figure che si piegano tra il delirio e la devozione, tra il gioco e l’abisso.
Le immagini che emergono da queste tele non obbediscono alla grammatica della realtà. Sono flussi, visioni, corpi che mettono in scena lo stesso artista e allo stesso tempo lo eccedono, ibridi, androgini, santi laici, erotismi trasfigurati. Kuschnir non si rappresenta, si inventa. E in questo gesto tesse un’automitologia in cui l’io si dissolve e si ricompone in figura, colore e desiderio. Ogni opera è un luogo, o meglio un inter-luogo, dove memoria, paesaggio e sogno si confondono.
La mostra assume la forma di una partitura, una canzone visiva in cui ogni quadro è una nota, un respiro. Il canto nel titolo porta con sé molteplici strati: suono e rifugio, margine e voce. Allude a Rio de Janeiro, non a quella geografica, ma a quella della sensorialità tropicale, del sole tra le foglie, del sale incollato alla pelle. Ma evoca anche l’attraversamento: tra lingue, tra continenti, tra modi di vedere e di essere.
I riferimenti pittorici ci sono. Ma c’è qualcosa di indomabile nel modo in cui queste influenze si mescolano alla materia del presente — un presente tropicale, sensuale, fabulato. Il colore vibra sporco, impuro, solare. La composizione non si struttura secondo equilibrio, ma secondo accumulo affettivo. Tutto sfugge: le narrazioni, i corpi, i simboli. E in questa fuga si crea lo spazio per l’impossibile — il luogo in cui l’immagine non ha bisogno di avere senso, ma solo di riverberare.
Nel gesto di Kuschnir, la pittura accoglie un soggetto che non desidera fissarsi, ma abitare l’oscillazione. Le sue immagini sono luoghi in cui il corpo si trasforma, dove il mito è intimo, dove la memoria si mescola al delirio come chi mescola i colori nella stessa tavolozza. E forse è proprio questo ciò che rimane, alla fine: la creazione di uno spazio in cui lo sguardo possa riposare, in cui l’immagine si offra come casa provvisoria, in cui l’immaginario sia rifugio, e l’impossibile una forma del dire.ANTONIO KUSCHNIR
“O Canto do Rio”
Testo a cura di Domenico de Chirico
ABC-ARTE presenta “O Canto do Rio”, la più ampia mostra personale in Italia dedicata al giovanissimo pittore brasiliano Antonio Kuschnir (Rio de Janeiro, 2001), un artista che trasforma sapientemente la pittura in un ricco dispositivo narrativo, caratterizzato da un impianto fortemente simbolico e visionario. Attraverso un generoso corpus di opere, il pubblico è invitato a immergersi in un universo figurativo onirico e stratificato, dove natura e Antropocene, mito e autobiografia, sogno e memoria si intrecciano in una fitta rete di rimandi iconografici e poetici. Le sue composizioni, animate da personaggi archetipici, creature fantastiche quasi silvane ed elementi simbolici, si configurano come vere e proprie “auto-mitologie” visive: narrazioni fluide che coniugano memoria soggettiva e immaginario condiviso.
Kuschnir – artista della cosiddetta generazione post-mediale, nonché figlio di un’epoca dominata dall’immagine – sviluppa un linguaggio pittorico nutrito da una ricca confluenza di fonti eterogenee che spaziano dalla mitologia classica al folklore brasiliano, dalla storia dell’arte europea alla cultura visiva contemporanea. Una tavolozza cromatica intensa e vibrante accompagna questa molteplicità di riferimenti, dando origine a una grammatica visiva personale e stratificata, in cui immaginazione e struttura convivono armoniosamente in complesse costruzioni pittoriche, intessendo un canovaccio denso di simboli e tensioni narrative. Le sue opere riflettono anche un interesse per la teatralità e la messa in scena, rintracciabile nella presenza di elementi scenografici come tendaggi e quinte, che introducono e alimentano dimensioni liminali, sospese tra realtà e finzione.
La sua pittura a olio, intessuta di una gestualità insieme rituale e minuziosa, e animata da un’energia dinamica, dà vita a superfici dense e vibranti. Una tavolozza particolarmente fulgida, spesso ravvivata da autentici lucori, definisce atmosfere sospese tra rito e sogno. La luce, quasi mai naturalistica, assume un carattere emotivo, teatrale e mistico, trasformando ogni tela in una soglia percettiva che ci catapulta, di soppiatto, negli abissi dell’inconscio e nella più fantastica dimensione mitopoietica.
Antonio Kuschnir costruisce narrazioni non lineari e prive di gerarchia che sovvertono le convenzioni della prospettiva e della profondità. Adattandosi al concetto di “Dasein”, o “essere-nel-mondo” heideggeriano – inteso come l’individuo “sempre avanti a sé stesso”, proiettato verso il futuro e capace di progettare la propria esistenza – queste composizioni immaginative si configurano come vere e proprie mise-en-scène. Qui, oggetti di diversa natura, tassidermie, animali mitici, figure antropomorfe talvolta biformi, condottieri, sirene, fauni, veneri insolite, menestrelli, l’iconico Icaro e svariate creature volanti dalle ali colorate e ampiamente dispiegate, insieme a ritratti di persone realmente esistenti, si inseriscono armoniosamente in paesaggi rigogliosi, circondati da fiumi quieti e misteriosi, e sovrastati da cieli limpidi e animati, talvolta stellati. Questi elementi si sovrappongono o si affiancano, creando conglomerati liberi che richiamano i processi della memoria o, forse, più semplicemente, l’illusione pareidolitica. Le sue opere, nella loro interezza, non offrono letture univoche, ma aprono spazi interpretativi che coinvolgono attivamente lo spettatore, guidato da titoli evocativi che suggeriscono svariate chiavi di lettura senza mai imporre un’interpretazione univoca.
In sintonia con la poesia del suo connazionale Manoel de Barros, formalmente considerato un poeta post-modernista vicino alle avanguardie europee, che esplora la condizione umana e celebra la bellezza dell’infanzia, della natura, delle piccole cose, dell’effimero e dell’incompleto, Kuschnir ci invita a osservare le sue immagini con occhi sognanti, trasportandoci in un mondo dove pittura, corpo, racconto e visione si fondono armoniosamente. Così come Barros celebrava l’ineffabile, Kuschnir esplora l’intreccio tra intimità e allegoria, memoria storico-culturale e nuova immaginazione. ‘O Canto do Rio’ diventa così un viaggio immersivo in un universo sospeso, dove la bellezza risiede nel non didascalico e nella tensione tra il quotidiano e l’infinito, simile a quella che caratterizza il Pantanal — la più grande zona umida del mondo, situata principalmente in Brasile — un luogo magico, aulico e sospeso, dove, come affermava lo stesso Barros, seppur in riferimento alla poesia, «è possibile volare fuori dalle ali».
Alla luce di tali premesse, possiamo sicuramente affermare che Antonio Kuschnir, pur rimanendo profondamente legato alla sua cultura d’origine, si inserisce a pieno titolo in una lunga tradizione europea, reinterpretandola con una sensibilità unica che celebra la ricchezza delle diversità culturali. Il suo lavoro si distingue per un profondo interesse verso il sogno e il mito, temi che, uniti a una rigorosa ricerca formale e concettuale, evocano il surrealismo senza mai ridursi a una mera imitazione dello stesso. I suoi dipinti sono un flusso continuo di esperienze universali che trascendono le tradizionali distinzioni tra America Latina ed Europa. Pertanto, “O Canto do Rio” non è solo una riflessione sulla mitologia e sulla memoria collettiva, ma un affascinante esempio di come l’arte contemporanea possa intrecciarsi con le tradizioni pittoriche più profonde e diverse, creando un ponte tra passato e presente.
Per di più, a partire dall’estetica medievale e, pur dialogando stilisticamente con i grandi maestri europei innovativi e visionari come Pablo Picasso, Henri Matisse e Paul Cézanne, Kuschnir attinge anche allo stile fantastico ed esotico di Henri Rousseau, offrendo una rilettura contemporanea della tradizione pittorica, arricchita dalla sua identità brasiliana. La sua pittura mescola abilmente riferimenti classici con visioni poeticamente audaci, dissolvendo progressivamente i confini imposti dal tempo e dallo spazio. Così facendo, la memoria storica e collettiva si intreccia con quella personale, creando un linguaggio pittorico che attraversa fluidamente innumerevoli epoche e geografie. Come i grandi maestri europei, Kuschnir diventa un narratore onnisciente, ma con uno sguardo sempre rivolto alla modernità, dove il mito non è solo un retaggio del passato ma anche una spinta continua di rinnovamento.
Così facendo, egli invita lo spettatore a vivere il suo mondo affrescato come un varco verso un universo inedito di miti e memorie, in cui la cultura europea e quella brasiliana si incontrano in libertà, si confrontano e si arricchiscono reciprocamente. La sua opera è un invito a guardare oltre i confini tradizionali e a partecipare attivamente alla creazione del significato, trasformando ogni quadro in un luogo di incontro e di scoperta condivisa. Come nella trilogia fantastica e allegorica sull’uomo contemporaneo di Italo Calvino, “I nostri antenati”, in cui personaggi come il Visconte dimezzato, il Barone rampante e il Cavaliere inesistente abitano un limbo tra il concreto e l’immaginario, lontani dalla cruda materialità e dall’urgenza sempre più incalzante del quotidiano, immersi in un universo simbolico fatto di passioni, dolori, amori, sventure, speranze e illusioni, anche nelle opere di Kuschnir, simboli e figure, reali o mitologiche, si intrecciano in una varietà di emozioni e di scenari bucolici per esplorare in profondità la condizione umana contemporanea, quella a lui più prossima. Così, attraverso un linguaggio personale ma universale, Antonio Kuschnir ci invita a riflettere sul potere dell’immaginazione e sulla fluidità che intercorre tra il concreto e l’invisibile, dando vita a esperienze che stimolano la libertà di pensiero e favoriscono progressivamente la scoperta di un coro di significati sempre più nuovi e sorprendenti.Soffi verso altri canti
di MANDÚ
La notte cala sollevando un sipario azzurrato: un fiume volante popolato da creature ibride, abitanti di un cielo situato in un’altra atmosfera, si riversa sul pubblico.
Qualcuno ci indica che si tratta dell’alba di qualcosa di nuovo. La figura di un cavallo, subito all’ingresso, ci invita a ciò che ancora non è stato visto, ma è già in cammino, proveniente da terre fertili, da una fauna variegata e da un terreno vischioso, che nell’opera si rivela come un luogo desertico, un mezzo del cammino, una traiettoria lontana fino al margine del mondo.
In una mostra suddivisa in quattro atti poetici, evocare un fiume come testimone visivo significa navigare tra frequenze di qui e di là, sulle sponde, in una proposta che non è minimamente interessata a costruire somiglianze o distanze tra un lato e l’altro, ma piuttosto ai paradossi di ciò che può diventare possibile durante il viaggio, libero dal desiderio antropofagico, ma denso nello sguardo di chi osserva bene dove posa i piedi e assorbe ciò che serve. Un gesto che definisco pittura vernacolare: qualcosa che si aggiunge ad ogni passo, ma che porta con sé una borsa piena di memorie, strati e dettagli propri, ossessivamente accumulati da Antonio.
È inevitabile non soffermarsi sugli abiti: ricordo che, nelle nostre conversazioni in atelier, dove per ore divagavamo su di essi, ipotizzavamo che sarebbero diventati marcatori del tempo nelle sue opere. C’è interesse nel vedere il figurativo di questi indumenti come dettagli o margini, poiché nella sua pratica l’artista si è chinato sull’immensità di ciascuno, per così tanto tempo e con tanti strati, da trasformarli in paesaggi autonomi, anche all’interno di composizioni estremamente orchestrate.
Il sipario azzurrato che ci accompagna fin dall’inizio ora annuncia la fine, ma, come nel teatro, anche l’inizio di un nuovo atto. Un *grand finale* di immagini che si preoccupano, tecnicamente, di occupare tutti i piani del telaio, unendo elementi ed esseri in un post-apice, e che proprio per l’eccesso aprono uno spazio invitante allo spettatore, per fabulazioni a partire da sé e da ciò che porta con sé in questa mostra, ora infettato anche da questi altri mondi.
Evoco l’immagine dell’uccello Urutau, o uccello della luna, in dialogo con tutte le ali evidenziate tra un’opera e l’altra, appollaiato sulla punta di un ramo secco, che fissa la notte con lo sguardo rivolto verso l’alto e che, attraverso un soffio frammentato, emette un canto di malinconia che si confonde con un lamento umano femminile, per alcuni, qualcosa di simile a ciò che chiamiamo opera. Un canto tanto bello e profondo che, in cosmologie localizzate, può essere interpretato come momento di morte o di transmutazione ve