ABC-ARTE dedica un’ampia retrospettiva alle creazioni degli anni Ottanta di Tomas Rajlich, nelle sedi di Milano e Genova. Come si evince dal titolo della mostra, Golden Times, l’oro costituisce l’elemento visivo predominante, permeando gli spazi della galleria di un’atmosfera metempirica di grande eleganza e raffinatezza. Accanto a questa serie di opere dall’essenza dorata vengono presentati gli altrettanto celebri lavori triadici in cui il colore oro si amalgama ad altri impasti cromatici, svelando interessanti e inaspettati risvolti percettivi. L’allestimento è arricchito da una selezione di dipinti pubblicati nel volume “100 SMALL PAINTINGS. TOMAS RAJLICH” a cura di Luuk Hoogewerf (Edizioni Kant, Praga 2021).
Per lʼoccasione ABC-ARTE ha pubblicato un catalogo accompagnato da un testo introduttivo di Flaminio Gualdoni e da un saggio critico di Davide Ferri, che abbiamo avuto il piacere di intervistare.
Il titolo Golden Times suggerisce un’importante tematica legata all’uso dell’oro nell’arte di Rajlich. Come viene utilizzato l’oro dall’artista e quale significato assume all’interno della sua poetica?
La mostra da ABC-ARTE mi sembra proseguire un’indagine molto metodica e profonda che la galleria ha intrapreso da qualche anno a questa parte sull’opera di Tomas Rajlich, che ha portato a una periodizzazione, e a una lettura del lavoro dell’artista per serie abbastanza compatte, una cosa inevitabile nell’illuminarne il percorso per tappe, ma che al contempo non dovrebbe far perdere di vista le sfumature. Mentre scrivevo il testo critico, nei giorni scorsi, mi sono accorto di come sia difficile individuare delle specificità in ognuna di queste serie perché tutto viene anticipato o approfondito o si intreccia e sovrappone in molti modi nel lavoro di Rajlich. Penso alla “griglia” ad esempio: è una forma emblematica e fondamentale per lui, una forma che, come avviene per molti artisti che hanno operato (anche) nel secolo scorso, viene originariamente usata come primo atto, o primo passo nel trattamento della superficie. In Rajlich è una forma i cui contorni si inspessiscono, è una griglia non disegnata o incisa, ma dipinta mi verrebbe da dire; che ha la funzione di riportare la pittura che sta attorno, o dentro, sempre su questo piano di superficie invalicabile e ineludibile, nei termini di concessione all’illusionismo e alla rappresentazione. Solo successivamente la griglia scompare, in coincidenza con la ricorrenza del colore nero, che Rajlich introduce con una certa frequenza verso la metà degli anni Settanta, per poi comparire nuovamente proprio in associazione all’oro, ma in un senso che mi sembra diverso. Voglio dire: se alle origini il suo lavoro si reggeva su una particolare tensione o contrasto, la griglia era elemento di una polarità che generava questo contrasto. Da una parte dunque la griglia era geometria; dall’altra il colore che era genericamente pittura, ma pittura che non doveva mai eludere questo piano orizzontale, anti rappresentativo e anti illusionistico: e non è una faccenda da poco, perché ci vuol poco perché il colore si configuri, che so, in nuvola o in dato atmosferico. Quando la griglia riappare, negli anni Ottanta e in relazione all’oro, è diversa: si sovrappone, come accarezzando il colore, per stabilire con esso una collaborazione, mi verrebbe da dire una complicità. Dunque affermerei questa cosa per prima: l’oro è un’occasione per ridefinire, reinventare la sua pittura, rivedere i termini di rapporti che hanno fino a quel momento costituito la sua pittura.
L’oro è associato alla sfera soprasensibile in diverse culture fin dall’antichità. Le campiture dorate di Rajlich sembrano emanare un’aura trascendente, soprattutto laddove la luce rivela sfumature metafisiche che introducono a diversi livelli di lettura. Che cosa intende trasmettere l’artista all’osservatore?
Sì certo, ma l’oro è anche quello dell’incarto dei cioccolatini, e anche per Rajlich è così, mi verrebbe da rispondere un po’ provocatoriamente. Il punto è che farei una grandissima attenzione a non premere troppo l’acceleratore su questa dimensione della trascendenza nella sua opera. Per me la cosa affascinante del suo lavoro è che si muove sempre su un binario doppio: da una parte c’è questo richiamo a non oltrepassare mai una dimensione fisica dell’opera, la superficie come limite invalicabile, una “cosità” dei materiali e dei colori che utilizza, il quadro come oggetto; dall’altra invece c’è la presenza di un colore che sembra muoversi sulla superficie all’insegna di una sua vitalità interna, che non coincide necessariamente con una partitura di segni che rinviano alla mano dell’artista (o vi può coincidere alla lontana, e con una certa ambiguità), a una mano che dipinge, a un pennello o a una spatola. È un colore che può rivelare la sua pelle spessa e uniforme, oppure piegarsi, screziarsi, contaminarsi, movimentarsi in linee che determinano pieni e vuoti, animarsi per via di tocchi e strati sovrapposti. Dunque qualcosa che si muove indipendentemente dall’autore, con una vitalità molto fisica. Secondo me è alla luce di questi aspetti che si dovrebbe leggere l’opera di Rajlich, e anche questi lavori in cui utilizza l’oro. A volte mi viene da pensare che l’oro sottoponga il suo lavoro a un’ulteriore verifica. Questo colore, come ha detto lei, indica una sfera sovrasensibile nel nostro immaginario, l’oro funziona sempre come un invito ad andare oltre la materialità, ma è anche il luogo dell’apparizione, se considero lo sviluppo della storia dell’arte in occidente, della figura, di una figura che proprio mentre inizia ad assumere l’illusione di una tridimensionalità, a conquistare e scoprire un suo spazio, continua a convivere con l’oro. Allora non posso non pensare che un colore che genera un’aspettativa così forte, non sia intenzionalmente usato da Rajlich proprio per riportarlo su un piano materiale.
L’incidenza della luce sulle opere può avere un impatto significativo sulla percezione delle stesse. In che modo la luce interagisce con le auree superfici di Rajlich e quale ruolo gioca nella fruizione dell’opera?
Amplifica una specie di vitalità o mobilità o agilità del colore. E va di pari passo con un invito allo spettatore a mettersi in relazione con l’opera in modo più dinamico. Mi sembra che nella poetica di Rajlich tutto spinga a rilanciare e inquadrare questa relazione opera – spettatore: da una parte l’opera, dotata di una presenza e vitalità propria, dall’altra lo spettatore. Un dipinto la cui lucentezza è in un certo senso cangiante e mobile, è un dipinto che guarda verso lo spettatore, e lo dico perché mi viene sempre in mente una frase di Lacan: “Ciò che è luce mi guarda…”
La sperimentazione del colore oro risale agli Anni ’80. Come si inserisce questa fase nella parabola stilistica complessiva di Rajlich? In che modo questo periodo ha influenzato la sua evoluzione artistica nel corso degli anni?
L’inserimento dell’oro arriva dopo gli anni degli esordi, in cui la poetica di Rajlich sembra risuonare di una particolare tensione tra geometria (la griglia) e colore (la pittura), e dopo quel momento che possiamo identificare con l’introduzione del nero, che cade a metà degli anni Settanta. E qui mi chiedo: è corretto ripartire i suoi cicli tenendo come orizzonte di riferimento l’utilizzo di un determinato colore? Da un certo punto di vista sì, perché un punto di vista lo dobbiamo pur adottare per sistematizzare e periodizzare, ma per un altro verso non posso non osservare che nel momento in cui il nero sembra essere protagonista Rajlich sperimenta una gamma di toni incredibile: i grigi, i bianchi, in alcuni lavori anche l’oro che sembra fuoriuscire dal nero, combinarsi con il nero. E il periodo dell’utilizzo dell’oro, inoltre, mi sembra coincida soprattutto con la scoperta di una brillantezza e una vitalità del colore, con l’introduzione, nello stesso periodo anche di altre gamme, molto più brillanti che in passato. Mi sembra che gli anni Ottanta di Rajlich segnino cioè con un desiderio di abbandono al colore mai sperimentato prima, e questa è l’eredità che questa fase lascia ai decenni a venire.
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