Ubiquità
di Ivan Quaroni

 

“Il linguaggio opera interamente nell'ambiguità…” (Jacques Lacan)

 

La percezione è stata, per lungo tempo, al centro delle sperimentazioni ottiche e cinetiche dalla fine degli anni Cinquanta e lungo tutto il decennio successivo in Europa. Il senso di quelle ricerche e la loro urgenza erano un riflesso delle conseguenze culturali delle scoperte scientifiche nel campo della fisica quantistica e delle prime esplorazioni dello spazio. Riguardava soprattutto la messa a fuoco del ruolo dell’osservatore e della sua fisiologia nella costruzione dell’immagine e, allo stesso tempo, costituiva una riflessione intorno al rapporto tra la seconda e la terza dimensione dello spazio.

A distanza di oltre cinquant’anni, in piena era digitale, l’indagine sul rapporto tra immagine e cognizione deve necessariamente subire una revisione o, quantomeno, un’estensione adeguata ai nuovi parametri percettivi. La ricerca di Patrick Tabarelli s’inserisce in quest’ottica di ripensamento dei meccanismi rappresentativi e dei processi interpretativi dell’immagine, sondando a fondo la dicotomia latente tra i meccanismi creativi e il risultato finale, laddove l’immagine, cioè il costrutto estetico, si fa portatore di valori formali che contrastano con la tradizione emotiva (e romantica) della pratica artistica.

Le superfici dipinte da Tabarelli sono piatte, anti-materiche, svuotate di ogni contenuto psicologico o emozionale. Nei lavori eseguiti tra il 2012 e il 2013 con olii e alchidici su tela, le forme hanno spesso un’origine biomorfica e si distendono nello spazio illusorio della superficie con i movimenti rotatori, ondulatori e oscillatori propri della fisica. L’uso di colori terziari e dei chiaroscuri accentua gli effetti di artificialità e conferisce alle immagini una qualità quasi fotografica. Sembrano immagini digitali, ma sono in realtà interamente eseguite con mezzi manuali. Tabarelli sa che l’immagine è essenzialmente, e per definizione, illusoria, perciò radicalizza le sue qualità mistificatorie con un linguaggio pittorico volutamente ambiguo e indeterminato. Lo fa, soprattutto, lavorando intorno a concetti dicotomici, come ad esempio il contrasto tra la dimensione effettuale dell’immagine e il campo causale del processo di costruzione. Le conseguenze di quest’approccio sono diverse. Ad esempio, nel caso dei dipinti, Tabarelli ci consegna dei dispositivi ottici che sospendono, o mettono tra parantesi, l’aspetto tradizionalmente auratico della creazione. Lo spettatore non ravvisa segni e gesti che tradiscono la presenza dell’artista, sebbene sia evidente, che quelle forme nascono necessariamente da un lavoro, che è insieme procedimento e progetto. Tabarelli ha studiato design e ha lavorato con un’agenzia fotografica specializzata in immagini scientifiche. Inevitabilmente un lascito di queste prassi ha finito per contaminare le modalità operative della sua pittura. Il distanziamento tra l’autore e l’opera, tra il manufatto e il creatore è possibile solo in un’ottica di progetto, il che non preclude il fatto che durante l’iter esecutivo l’artista possa avere epifaniche intuizioni, che lo conducono a operare circostanziali deviazioni e aggiustamenti nel percorso. Semplicemente, nella pittura di Patrick Tabarelli, il modus operandi è abilmente occultato, così da generare nell’osservatore opportuni interrogativi intorno alla natura ambigua delle immagini. Un’altra dicotomia riguarda la gestione dello spazio pittorico. Il luogo dell’azione, cioè il campo della rappresentazione, è sempre circoscritto, tagliato da perimetri obliqui che interrompono la possibilità di fruizione unitaria. Lo spazio della tela è sottoposto a una frammentazione, a una parcellizzazione tra aree statiche e vividamente mobili. In queste ultime, per intenderci quelle in cui i biomorfismi danno un’impressione di movimento continuo e fluido, c’è comunque una latente staticità. L’iniziale e allusiva mobilità delle forme sembra, infatti, bloccata come in un fermo immagine fotografico. Il moto si arresta pochi istanti dopo il primo approccio visivo. Cosa che, invece, non succede nei dipinti più recenti della serie Zero-Om, dove le rigature texturali delle superfici, ottenute pettinando la pasta pittorica non ancora solidificata, producono effetti di aberrazione ottica.

I più recenti esiti della ricerca di Patrick Tabarelli reiterano, pur attraverso un diverso procedimento compositivo, le strategie dicotomiche dei dipinti precedenti, con la sola differenza che qui l’artista si avventura in un territorio più schiettamente digitale.

Circa un anno fa l’artista ha iniziato a interessarsi al fenomeno dei Makers, un movimento spontaneo di artigiani digitali, di persone che costruiscono oggetti che solo qualche anno fa avrebbero richiesto risorse ingenti. Tutto nasce dalla creazione di Arduino, una scheda elettronica, inventata a Ivrea, che permette agli utenti di costruire in modo semi-artigianale prototipi di ogni tipo partendo da un computer e con l’elaborazione di un software e l’utilizzo di tecnologie di stampa 3D. Partendo da questa scoperta, Tabarelli ha incominciato a riflettere sulle possibili applicazioni di questa tecnologia in campo artistico e ha imparato le nozioni necessarie per costruire un software e una periferica per dipingere. Il suo progetto si chiama NORAA (NOn Representational Art Automata) ed è sostanzialmente un drawbot, o se preferite un paintbot, cioè una macchina che traduce i comandi di un software, creato dall’artista, in pittura.

I drawbot esistono da qualche tempo, e s’inseriscono in una tradizione di Computer Art che persiste fin dagli anni Sessanta e che è ampiamente documentata in un recente saggio di Grant D. Taylor intitolato When the Machine Made Art: Troubled History of Computer Art (Bloomsbury Academic, 2014). In realtà, NORAA è pensato per essere qualcosa di più di un semplice strumento, ma piuttosto una piattaforma aperta e condivisa intorno a cui possa costituirsi una comunità di utenti che lavorino alla creazione di un progetto artistico dal concepimento fino alla creazione di un hardware. Questa è però una fase successiva del progetto. Per ora, basti dire che NORAA ha portato Tabarelli alla realizzazione di dipinti su carta essenzialmente bidimensionali ed eseguiti con marker caricati ad acquarello o acrilico. Sono lavori che all’apparenza, e contrariamente alle tele, sembrano dipinti a mano. Hanno, cioè, una caratteristica d’imprecisione e imprevedibilità che deriva dall’apporto umano. NORAA, infatti, non produce immagini precostituite, ma traduce dei comportamenti. Il software contiene dei comandi che riguardano il modo di operare, ma non l’esatta qualità o disposizione delle immagini da dipingere. La conseguenza è che la struttura dell’immagine è sorprendente ad ogni impiego della macchina.

Da un punto di vista filosofico, Tabarelli è rimasto fedele all’oggetto della sua indagine, che riguarda appunto la sua fondamentale ambiguità percettiva. Ha semplicemente invertito i termini della dicotomia. Nel progetto NORAA il processo esecutivo è effettivamente debitore delle tecnologie digitali, ma il risultato effettuale non tradisce necessariamente la sua origine. Ogni dipinto è diverso, ma soprattutto l’effetto pittorico è di palmare evidenza. Non solo i colori e il supporto (o la sua eventuale preparazione) sono scelte condizionate dall’artista, ma l’intero processo ha una chiara marca autoriale. Forse è per questo motivo che l’artista non mostra mai la macchina nella sua forma finita, ma si limita a esporne solo dei frammenti. La sua intenzione è quella, come sempre, di radicalizzare l’apparente dicotomia, in questo caso tra uomo e macchina, ma in generale tra procedimento e oggetto finale. Con il suo NOn Representational Art Automata, in realtà Tabarelli produce un avvicinamento tra uomo e macchina, dimostrando che i concetti di autorialità e autenticità nell’era digitale devono essere integralmente ripensati, anche alla luce delle recenti ricerche nel campo dell’ubiquità tecnologica o, come la chiamano gli addetti ai lavori, Ubicomp (Ubiquitous Computing), una branca dell’informatica che studia nuovi modelli interattivi che non presuppongono l’utilizzo di desktop.

Incominciata come un’indagine artistica eminentemente formale e procedurale, la ricerca di Tabarelli sembra aprire nuove e impreviste prospettive. Prospettive che è difficile circoscrivere al solo ambito artistico, senza considerare le sue inevitabili ricadute nel campo sociologico della creatività open source, sempre più basata sullo scambio e la condivisione dei saperi, ma non ancora pronta ad abolire lo status autoriale dell’individuo.

 

 

Principio d'indeterminazione.

di Ivan Quaroni

 

"L'arte astratta non esiste. Devi sempre cominciare con qualcosa. Dopo puoi rimuovere tutte le tracce della realtà."

(Pablo Picasso)

 

"Un'immagine vuole spezzare i confini che il concetto ha tracciato per restringerla e definirla. Lo spirito, che lo voglia o meno, deve prenderne atto, se non vuole capitolare di fronte ai fenomeni."

(Ernst Jünger)

 

Da qualche tempo nell'arte italiana si è andata formando una nuova sensibilità aniconica e polisemica che, in discontinuità con i codici dell'astrazione geometrica, informale e analitica del passato, si esprime attraverso una pluralità di medium, dalla pittura alla scultura, fino all'installazione.

Nella recente storia dell'arte, il processo astrattivo ha rappresentato spesso un punto d'arrivo, indicativo di un'evoluzione o di una maturazione del linguaggio pittorico. Molti pittori astratti italiani come Alberto Magnelli, Manlio Rho, Arturo Bonfanti e Osvaldo Licini, tanto per fare degli esempi, sono partiti da un approccio realistico per poi giungere a un sistema di segni e figure interiorizzate, più prossime al mondo immateriale delle idee. Tuttavia, il passaggio tra rappresentazione iconica e aniconica si è sempre svolto in quest'ordine e mai all'inverso.

Ciò che caratterizza gli artisti appartenenti alla generazione dei Millennials è, invece, il riconoscimento della fondamentale ambiguità dei linguaggi visivi e, insieme, la definitiva archiviazione della dicotomia tra astrazione e figurazione, considerata come un retaggio del passato. Appare ormai chiaro che oggi queste vecchie classificazioni non sono più funzionali. È forse la conseguenza di un cambiamento strutturale della cultura che riguarda l'insorgere di una nuova coscienza, sempre più ideologicamente a-confessionale. Un'eredità, se vogliamo, dell'epoca postmoderna, che ha contribuito a ridefinire i generi, fluidificandone i confini e favorendo una più libera circolazione degli artisti tra i diversi domini disciplinari. Anche la critica internazionale ha registrato questo cambio di marcia, spingendo autori contemporanei come Tony Godfrey1 e Bob Nikas2 a ripensare le vecchie denominazioni e a proporre una visione più elastica delle ricerche pittoriche attuali. Il primo ha coniato, infatti, la definizione di Ambiguous Abstraction, riferita alle indagini di artisti astratti nei cui lavori sopravvivono tracce, seppur labili, di figurazione; il secondo ha esteso la definizione di Hybrid Picture anche alle opere di artisti prevalentemente figurativi (come Jules de Balincourt e Wilhelm Sasnal) che ricorrono spesso a stilizzazioni astratte.

In verità, già Gerhard Richter, con la sua vasta e variegata produzione oscillante tra astrazione e figurazione, aveva dimostrato di considerare la pittura come un corpus unitario, a prescindere dalle differenti accezioni linguistiche.

Già nel 1986 il pittore americano Jonathan Lasker era convinto che l'Astrazione fosse morta con i Black Paintings di Frank Stella e che la pittura, da quel momento in avanti, dovesse occuparsi di temi marginali e aleatori come la memoria, la presenza, la materialità, la trascendenza e la mescolanza di arte alta e bassa. Temi poi divenuti tutt'altro che marginali nella post-astrazione dei Millennials plasmati dall'aumento massiccio delle tecnologie informatiche e digitali e interessati ai processi di produzione e di fruizione delle immagini.

L'indagine sulla percezione, al centro delle sperimentazioni artistiche dalla fine degli anni Cinquanta, era stata una delle tante conseguenze provocate dalle scoperte nel campo della fisica quantistica, la quale attribuiva all'osservatore il potere di influenzare il risultato degli esperimenti scientifici e, per estensione, la capacità di determinare concretamente la realtà. Tramite il Principio d'indeterminazione le ripercussioni epistemologiche della teoria di Werner Karl Heisemberg si sarebbero fatte sentire anche nel campo delle arti contemporanee con l'avvio di una profonda riflessione sul ruolo dell'osservatore nella costruzione delle immagini. Le opere ottiche e cinetiche erano, infatti, pensate come dispositivi interattivi capaci di generare una reazione fisiologica nel riguardante, che in questo modo partecipava attivamente al completamento del significato dell'immagine. In sostanza, gli artisti si consideravano degli scienziati estetici, investiti del compito sociale di mostrare al pubblico il funzionamento dei meccanismi cognitivi. Nell'attuare tale scopo, essi dovettero necessariamente fare un passo indietro rinunciando al principio di autorialità, come avevano fatto gli esponenti del Gruppo N di Padova, che firmavano le opere con la sigla collettiva.

A distanza di oltre cinquant'anni da quelle ricerche, al culmine dell'era digitale, l'indagine sul rapporto tra immagine e percezione ha subito un ripensamento o, quantomeno, un'estensione adeguata ai nuovi parametri cognitivi della cosiddetta Y Generation. Per questi giovani, infatti, non è tanto importante stabilire come funzionano i meccanismi della visione, quanto reagire alle mutate condizioni di fruizione delle immagini generate da internet e dalla realtà virtuale, attraverso lo sviluppo di una coscienza critica capace di demarcare i confini tra creazione artistica e produzione a scopo comunicativo, commerciale e ludico.

Ad accomunare gli artisti presenti in questa mostra è innanzitutto l'approccio radicalmente individualista nel considerare l'arte come uno strumento cognitivo e, insieme, come una forma di resistenza ai codici di comunicazione massmediatica e ai sistemi narrativi tradizionali. La scelta dell'astrazione, per alcuni immediata, per altri graduale, risponde quindi a una precisa volontà di recidere ogni legame con i linguaggi pervasivi dei media (non necessariamente con le tecnologie), e di ristabilire un legame primario e generativo con la realtà.

Astrarre, termine derivante dal latino ab trahere, significa"distogliere", "separare"; indica quel tipo di azione mentale che consente di spostare il problema dal piano concreto e immediato della contingenza a quello mediato della riflessione. Astrazione e teoria sono termini analoghi. Entrambi prevedono un distaccamento dalla realtà. Eppure nell'astrazione dei Millennials questo scollamento è solo momentaneo, ha il valore di un'epochè, di una sospensione del giudizio nei confronti della presunta veridicità dei fenomeni e che, tuttavia, quasi mai si traduce in un completo distaccamento dalla realtà.

Paolo Bini, ad esempio, traduce paesaggi fisici (e mentali) in sintagmi cromatici astratti, costruiti secondo l'unità del pixel con una procedura che richiama i processi di scansione di scanner e plotter. L'artista dipinge, infatti, su nastri di carta, che poi monta su tavole, tele o superfici murarie per ottenere immagini contrassegnate da una serrata partizione ritmica e cromatica delle superfici. Attraverso dipinti, installazioni e pitto-sculture, Bini perviene a una personale variante lirica di pattern painting, in cui coesistono il rigore formale del minimalismo e l'urgenza gestuale dell'espressionismo astratto. Questa geometria emozionale, prodotta dalla fusione di costrutti mentali ed entità fenomeniche, attesta la sua pittura sulla sottile soglia percettiva tra il visibile e l'invisibile, nel punto preciso in cui l'atto di osservare la natura si scontra con le inventive distorsioni della coscienza.

Fitomorfi e anatomorfi sono i segni pittura di Isabella Nazzarri, che attraverso un alfabeto organico e in continua mutazione esprime sensazioni, memorie, intuizioni altrimenti inafferrabili. L'artista prende spunto dalla struttura classificatoria delle tavole anatomiche e degli erbari per costruire una grammatica di pittogrammi evocativi e fluttuanti, nati da una libera interpretazione delle morfologie naturali. Come nel grande dipinto murale realizzato sul soffitto di una sala della galleria, una sorta di proliferante genesi organica che riecheggia le codificate forme dei suoi Sistemi innaturali, teoria immaginifica di amebe e parameci, batteri e protozoi che paiono strisciati fuori dal brodo primordiale di un pianeta alieno. Anche se non è la fantascienza a influenzare l'immaginario dell'artista, ma piuttosto l'osservazione, tutta interiore, di una pletora di forme archetipiche, simili a quelle della microbiologia terrestre, ma generate nel circuito liquido e mobile dell'immaginazione.

La ricerca di Matteo Negri si concentra sull'utilizzo di materiali plastici che lavora in modo eclettico, passando dalla pietra alla ceramica, dal metallo alla resina, spesso utilizzando vernici industriali dai colori pop per raggiungere un'immediata efficacia espressiva. La sua variegata produzione ruota attorno alla scissione tra forma e significato e alla creazione di un cortocircuito tra i contenuti estetici e i materiali di volta in volta utilizzati. E' il caso dei Kamigami Box, grandi scatole dai perimetri irregolari dove le superfici interne di acciaio specchiante riflettono all'infinito le tipiche costruzioni ortogonali ispirate ai lego brick, dando allo spettatore l'impressione di osservare una sterminata fuga di agglomerati urbani. Oltre a un inedito Kamigami, l'artista espone un pezzo di mobilio, una vecchia cassettiera recuperata e trasformata in un espositore per piccole opere, un displayer che il pubblico è invitato a esplorare, sperimentando una singolare forma d'interattività.

La disamina dei meccanismi di creazione e di fruizione dell'immagine è il tema centrale nel lavoro di Patrick Tabarelli. Le sue opere sono caratterizzate da un'ambiguità formale che induce nello spettatore una sorta d'incertezza percettiva. Nei suoi dipinti, infatti, la superficie appare piatta o percorsa da oscillazioni dinamiche e minimali che contraddicono l'origine gestuale della sua pittura, facendola somigliare a una stampa digitale. Recentemente, la sua ricerca si è concentrata sulla costruzione di drawing machine realizzate con hardware e software artigianali capaci di generare superfici pittoriche che sembrano dipinte a mano e che, quindi, rimarcano ulteriormente l'ambiguità processuale nei rapporti tra uomo e macchina. Attraverso il progetto NORAA (Non Representational Art Automata) Tabarelli suggerisce una ridefinizione dei tradizionali concetti di autorialità e autenticità dell'opera, messi in crisi dai recenti sviluppi nel campo delle tecnologie digitali e dalle nuove possibilità interattive preconizzate dall'informatica ubiqua.

Viviana Valla reinterpreta il linguaggio dell'astrazione geometrica attraverso l'utilizzo di materiali non convenzionali, come carte di recupero, post-it, scotch e frammenti stampe che si riferiscono a una dimensione intima e formano, così, una sorta di enigmatico affastellamento visivo. Tutto ciò che non vediamo, cioè gli interventi pittorici e i collage che l'artista cancella nel processo di stratificazione pittorica costituisce l'ossatura dell'opera. I contenuti formali sedimentati, parzialmente affioranti sulla superficie, mostrano come il suo processo pittorico consista in un progressivo rassetto di elementi caotici, aggiunte e sottrazioni, negazioni e affermazioni. L'artista cerca di tradurre in un linguaggio chiaro e ordinato il magma di pensieri, intuizioni e illuminazioni che accompagnano l'atto creativo. Il risultato è una pittura a percezione lenta, dominata da tinte tenui e delicati passaggi di tonali. Una pittura quasi monocromatica, che raffredda i turbamenti lirici ed emotivi in una grammatica analitica e minimale.

Quella di Giulio Zanet è una pittura che afferma l'impossibilità di oggettivare pensieri ed emozioni in un discorso visivo lineare e comprensibile. Nel suo percorso artistico, infatti, il graduale passaggio da una figurazione destrutturata a un'astrazione ibrida e polisemica corrisponde al tentativo di costruire un linguaggio che riflette tutta la vaghezza e l'imprecisione delle esperienze esistenziali.

Il ripescaggio dei principali codici della tradizione astratta - dall'analitico all'informale, dall'espressionismo astratto al neo geo - converge verso la definizione di uno stile fondamentalmente mobile e volubile, dove il rigore del pattern si alterna al piacere dell'ornamentazione, la libertà del gesto alla scabra imperfezione del segno, in un'instabile e precaria oscillazione tra norma e trasgressione. Molti dei suoi lavori recenti trascendono la struttura classica del quadro e diventano sagome astratte, frammenti e lacerti di un lessico onnivoro, simile a una texture espansa che invade lo spazio ambientale alterandone, invariabilmente, i contorni percettivi.

 

1

Tony Godfrey, Painting Today, Phaidon Press, London, 2014.

2

Bob Nikas, Painting Abstraction. New Elements in Abstract Painting, Phaidon Press, London, 2009.